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Crisi coi novatori – articolo di Gino Bianco

Da “Critica Sociale”
ANNO 55°/Numero 7 – aprile 1963

Articolo di Gino Bianco

Tra le posizioni di pensiero espressa dall’intellighentia italiana esule in Francia negli anni Trenta, singolarmente viva e anticipatrice rispetto a posizioni e idee formulate più tardi fu quella che maturata all’interno del movimento antifascista «Giustizia e Libertà» mise capo alla cosiddetta «crisi dei novatori» e quindi alla separazione dal movimento di GL, nel 1936, di Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Mario Levi e Renzo Giua. Vi si trova un modo originale di intendere la politica e la «società» che coinvolge i temi sulla funzione e il ruolo degli intellettuali, del rapporto tra élites e rivoluzione, tra minoranze intellettuali e apparati politici.
L’analisi della società di massa e del totalitarismo nel mondo contemporaneo è anticipata nel pensiero dei «novatori» con singolare acutezza; Caffi e Chiaromonte spingono la critica oltre ogni superficialità e senza concedere alla genericità e all’improvvisazione riconducono l’analisi del totalitarismo fascista a fenomeni più complessi e in primo luogo alla crisi della civiltà europea di cui la prima guerra mondiale rappresentò la tumultuosa e sanguinosa espressione. Quel che la guerra aveva soprattutto colpito -insisteva Chiaromonte- erano i valori sul riconoscimento dei quali l’uomo della nostra civiltà regolava i suoi rapporti sociali, la sua visione d’avvenire, la sua scelta nei conflitti dell’esistenza; nello scritto «La morte si chiama fascismo», che è forse l’analisi più penetrante della crisi dello Stato di diritto pubblicata dai Quaderni di Giustizia e Libertà, indicava nella disgregazione morale, sociale, politica ed economica dell’Europa dal ‘14 in poi, l’origine del dilagare in tutta Europa dell’ondata fascista. Il gigantismo dello Stato contemporaneo che pletoricamente aveva esteso sempre più le sue funzioni e la complessità delle moderne tecniche di governo erano all’origine del fatto che «lo Stato moderno ha finito per essere uno Stato informe, strumento di forze senza legge: cominciando dalle influenze sotterranee e capillari delle tradizioni morte che non è capace di riassorbire; continuando coll’industrialismo, il capitalismo e la tecnica, cui non è capace di dare una legge, ma soltanto di lasciarli fare o d’intralciarli con «regolamenti» che in fondo aumentano l’informità e accelerano il processo di crisi dello Stato; e terminando ai poteri dello Stato stesso, principalmente polizia, burocrazia e forza armata, del cui funzionamento la comunità può, nel più felice dei casi, rendersi conto, ma non dispone di strumento politico abbastanza efficace per controllarli, e finisce per subirli. Quando in uno Stato, al posto della forma politica s’installa l’amministrazione, al posto della legge, il comando, questa amministrazione e il sistema dei comandi potranno essere foltissimi, ma lo Stato non esiste più, perché non ha più nessuna forma. Diventa una pirateria organizzata ai danni della società, ai danni della vita stessa, nel senso più profondo e radicale: opprime tutto e falsifica tutto. È uno Stato fuori legge. Lo Stato fascista».
In una situazione siffatta, di radicale disintegrazione della società, l’inattività dell’individuo non ha più motivi e ragioni, punti d’appoggio e punti di riferimento; e l’attività dello Stato totalitario ha pure come motivo dominante l’avventura: «non c‘è ragione perché il Danubio o l’Etiopia, l’unione con Berlino o l’amicizia gallica, un putsch a Memel, o un giro di valzer con Albione, l’amicizia polacca o un miliardo elargito a Mosca, siano l’una piuttosto che l’altra, la grande impresa di domani. E così si può esaltare Rossoni o Pirelli, la legge agraria o il ripristino dei privilegi nobiliari, il culto di Wotan o il pateracchio col Vaticano. Perché lo Stato è causa e fine di se stesso, suo essenziale attributo è quello di esistere».
Le tirannidi moderne hanno questo di tipico: che non possono esercitarsi altro che assoggettando tutti in nome di tutti; in altri termini che non si può dominare la situazione, cioè tenere a bada la massa, altro che in nome della massa. Ciò che praticamente vuol dire concentrazione di tutti gli interessi stabiliti in nome dello Stato. Ma vuol anche dire dissoluzione di tutti gli interessi stabiliti, di tutti i principi tradizionali, di tutte le «classi», in una parola di tutto il vecchio ordine sociale, in seno allo Stato. Vuoi dire acceleramento sfrenato di tutti i meccanismi che producono massa, non più limitati, distinti e controllati da un certo margine di democrazia, ma concentrati, diretti, manovrati a fini puramente politici e statali, cioè allo scopo di tener soggetta la massa. «Tener soggetta la massa non significa altro che mantenerla allo stato amorfo e indifferenziato di plebe, impedirle di diventare una società, sbarrare le porte all’ordine nuovo che le nuove condizioni di vita esigono, pena la morte per soffocazione».
Tratto caratteristico del fascismo è di rappresentare la massa, cioè quella poltiglia indefinibile, fatale prodotto della decomposizione della vecchia società… che sono le masse moderne e che in quanto tali sono sempre state il sostegno di tutte le inerzie sociali. Ne deriva una inconciliabilità radicale tra regimi di massa ed élites «e allora si capisce fino a che punto queste tirannie siano tiranniche, e devano realizzare un conformismo assoluto; non basta vietare ciò che è direttamente o velatamente contrario all’ordine stabilito, ma più direttamente tutto ciò che è diverso, che non è immediatamente utile alla conferma di esso ordine. Quindi non esiste un criterio per discriminare l’eresia dall’ortodossia; quindi di una organizzazione vera e propria del pensiero manovrato vorrebbero venire a capo questi regimi».
Per questo «la più radicale azione antifascista è quella che più radicalmente fomenta la creazione di élites che di fronte al totalitarismo che ha stravolto l’ordine dei problemi e non riesce più a pensare diritto, sappiano, almeno esse, ragionare e pensare. La creazione di una nuova élite è tanto più urgente e necessaria di fronte all’impotenza dei partiti rivoluzionari tradizionali a uscire dalla crisi generale in cui è precipitata la società moderna europea. Precipua missione di questi partiti sarebbe stato di fare l’unica rivoluzione che abbia senso e risponda alla realtà dei fatti: la rivoluzione democratica, ossia l’espropriazione e la redistribuzione del potere e delle ricchezze alle masse, sola via per fare di una plebe una società; (ma) a parte che la rivoluzione non si decide nei Congressi, i movimenti socialistici, per la direzione e lo sviluppo che ha preso il dogmatismo in regime di “democrazia” borghese, sono diventati incapaci di vera rivoluzione democratica, cioè di effettiva sovversione, e tendono piuttosto verso la statalizzione, a tutto vantaggio dell’ordine, o meglio: del disordine esistente. Per riuscire a un’azione efficace, dovrebbero cominciare col sovvertire se stessi».
Spettò a Caffi riprendere e approfondire i temi della formazione di una élite rivoluzionaria, e nello scritto «In margine a due lettere dall’Italia», Caffi sottolineava un’antitesi irriducibile tra rivoluzione e «società» (realtà infinitamente più ricca della politica). Tale antitesi tra rivoluzione e «società» Caffi esemplificava negli eventi della rivoluzione francese e di quella russa, che mostravano come «i capi di un movimento rivoluzionario» (emancipatore, giustiziere) sorgono come progenie diretta del «ceto scelto», al quale incombe di mantenere viva e sviluppare la cultura dello spirito». Né gli agenti del Comitato di salute Pubblica appartenevano all’élite impersonata precedentemente dai D’Alembert, Diderot, Voltaire, né i commissari dell’esercito rosso o della G.P.U. possono confondersi con la élite intellettuale russa. Nei due casi l’élite ha creato le idee, rovesciato «scale di valori», suscitato un modo nuovo di sentire e di comprendere i nuovi doveri verso l’umanità. Residui volgarizzati e irrigiditi di questi ordinamenti intellettuali e morali sono penetrati nelle «teste quadre» dove un unico pensiero si trasfonde in volontà indomabile. Ma tra gli uomini dei circoli degli Enciclopedisti e quelli dei club dei giacobini come tra quelli della società russa dell’Ottocento e i «rivoluzionari di professione» bolscevichi, rimaneva, nella filiazione, «l’abisso scavato dal modo diverso di intendere e valutare l’insieme di esperienze intime e di tradizioni accettate e amate che noi chiamiamo “cultura” o al modo latino “umanità”. Per il politico, anche quando sta sistemando le conquiste immediate di una rivoluzione, la cultura è qualcosa che serve la vita, per la élite essa è qualcosa che fa la vita». E tuttavia, la considerazione dell’elemento inumano della rivoluzione, dell’enorme distanza che sempre separa il mondo dei generosi e nobili progetti di sovversione radicale dalla «nuda realtà» che si è pur contribuito a creare, e addirittura la considerazione della sorte stessa riservata alle élites culturali che avevano preparato la rivoluzione dai loro successori ed esecutori pratici («mancherebbe una suprema consacrazione alla élite se non fosse suo destino di essere divorata dagli elementi che pure è precipua sua missione di scatenare») non dovrebbe impedire agli intellettuali di «capire la fatalità quasi provvidenziale di siffatti inumani eccessi, finché le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre, sono l’unico mezzo per portare rimedio (o solo un giusto compenso?) alle molto più turpi, prolungate, silenziose atrocità che ingenera quotidianamente l’ineguaglianza sociale». E nello scritto «Opinioni sulla Rivoluzione russa» Caffi, contrapponendo Proudhon a Marx, indicava una maniera diversa di concepire la «società umana» (e quindi quelle sue funzioni che sono la «libertà» e la «giustizia») contro una concezione che invece di liberare le spontanee energie della società, le volle aggiogare all’autorità dello Stato che uccide, falsifica, livella, riduce a vacue forme la realtà dei rapporti fra esseri umani… Ora (appunto) il socialismo, deriva dal suo stesso nome, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di «neo-umanesimo» proprio dal fatto che si è eretto a difesa della società contro gli inumani congegni dell’«ordinamento statale». Nell’abbandono dell’originario ideale del socialismo come moto tendente a perseguire «la completa emancipazione della società, delle concrete comunità di uomini vivi, dal coercitivo sistema dove gli uomini non figurano che come numeri, «soggetti», «schede», risiedevano -secondo Caffi- le ragioni della crisi del movimento socialista moderno. La «costituzione politica», risultato del movimento liberale del secolo XIX, doveva essere portata a compimento mediante la «costituzione sociale»… Limitando le prerogative e le funzioni dell’apparecchio statale, costringendolo a compenetrarsi esso stesso di «diritto sociale» si potrà giungere al complesso di varie autonomie che costituiranno la «democrazia industriale», poiché l’uomo è il vero fine del socialismo. I «partiti operai» invece si rivolgono unicamente al «cittadino», al fittizio «ente giuridico» che è il cittadino in tempi normali, e il sindacato si preoccupa unicamente del materiale, impersonale adattamento della «forza-lavoro» nel sistema tecnico-economico e quindi in definitiva di una sua integrazione nel sistema; né i partiti né i sindacati hanno dunque cura dell’uomo.
Culturalmente e politicamente, di fronte alla generica atmosfera volontaristica e idealistica che è lo sfondo di G.L., appena filtrata da una più autentica esigenza di rigore «morale» (proprio per la sua genericità il volontarismo di GL dopotutto era abbastanza poco moderno perché scontava negli anni Trenta certo idealismo volgare dei primi del secolo). Caffi, Chiaromonte, Levi e Giua esprimono anzitutto la esigenza di esperienze schiette, di un autentico pensiero critico che apra «le vie a quella critica risolutiva che è l’azione rivoluzionaria», di una «profonda coerenza di atteggiamenti rifiutando ogni condiscendenza ai sussulti sensazionali dell’attualità», di una informazione più larga, di una rigorosa impostazione critica volta ad un serio riesame di tutte le idee e della realtà sociale contemporanea; di qui il rifiuto di ogni improvvisazione, del «successo facile e chiassoso, di ogni conformismo (dalle «sacre memorie» nazionali al culto di Stalin).
Invero Rosselli intuisce episodicamente la possibilità di atteggiamenti che non esauriscano l’azione di G.L. in certo «confusionismo agitatorio» di idee nuove, stimolanti; giustamente Garosci ha potuto scrivere: «fu Caffi che primo indusse Rosselli ad andare oltre quello che di troppo superficialmente entusiastico, di eredità mazziniana nel senso meno buono c’era in “socialismo liberale”, ad accentuare la polemica contro i vecchi partiti non limitandola alla loro inerzia solo rispetto al fascismo, ma estendendola al carattere antiquato, fisso e accademico delle loro dottrine».
Il «Comitato Centrale» di G.L. sembra anche consapevole della propria debolezza «ideale»; di qui il costante richiamo all’azione; nell’azione (eventuale) si cerca uno scampo dalle obbiezioni altrui, la sanatoria universale dei molti eclettismi (da cui forse anche gli inconfessabili complessi di inferiorità verso i comunisti e dall’altra parte verso Caffi che porta nel chiuso mondo del fuoruscitismo di G.L. una vasta esperienza di tradizioni rivoluzionarie eterodosse).
Nei confronti del gruppo Caffi, Chiaromonte, ecc., le distinzioni e i contrasti non erano soltanto questioni di sfumature psicologiche e neppure sono riconducibili semplicemente alla diversa natura della «scelta personale», come del resto chiaramente emerge dalla «memoria» indirizzata da Selva (Levi), Bittis (Giua), Luciano (Chiaromonte) e che può considerarsi la «piattaforma» ideologica-politica su cui avvenne la rottura del movimento di G.L.
«Respinta con sdegno la supposizione di potersi dire semplicemente una piccola accolta di uomini di buona volontà che stanno cercando la loro via, il movimento non ha voluto né darsi un’ossatura organizzata che ne avrebbe precisato le reali proporzioni, né stringersi in una vera società segreta di rivoluzionari professionali, la cui opera naturalmente rimarrebbe priva d’ogni alone pubblicitario. Né cenacolo, né partito, né tribuna libera, né setta di cospiratori, “Giustizia e Libertà” vorrebbe essere un po’ di tutto questo, e magari tutto questo insieme. Gli ibridi sono tutt’altro che geniali prodotti d’una vigorosa vita nuova. E un surrogato d’organizzazione politica è fatalmente trascinato verso l’incoerenza di sempre più piccole avventure, perché nella sua vita interna non c’è possibilità né di solida democrazia né di strenua gerarchia, e le mosse che decide un capo o un quadrumvirato praticamente insindacabili sono unicamente determinate dalla fuggevole occasione del giorno. Così in aria, senza nemmeno la base organizzativa e dogmatica di un partito, mettiamo, come il comunista, ciò equivale a lavorare per l’articoletto (invece che per il “rapporto”), per la notiziola, per l’auto-incensamento e la vanteria senza costrutto. Si spinge in tal modo all’assurdo, nel vuoto, il funesto errore del lavoro «per l’apparato» che ha condotto in vicoli ciechi i partiti rivoluzionari».
A riprova del dissenso che saparava i «novatori» da Rosselli e dal Movimento, si può ancora ricordare l’articolo di Chiaromonte «La Riforma socialista ovvera alla ricerca della vera questione»; in quell’articolo Chiaromonte sottolineava che «il carattere statale dei partiti porta il rivoluzionario a uscire dal terreno della politica, perché il «fascismo dovrebbe aver indotto le menti, tra le altre, a una constatazione semplicissima: i partiti sono organismi incapaci di resistere alla tirannide. …Il primo semplice fatto è che i partiti moderni non sono dei «gruppi», delle associazioni integrali, ma delle «organizzazioni». Il secondo fatto è che tali organizzazioni derivano la loro esistenza dalla volontà dello Stato, per di più sono addirittura modellate sul tipo dell’organizzazione statale, più o meno democratica di forma, burocratica e autoritaria nella sostanza, cioè retta da un’oligarchia che appoggiata a una coorte di funzionari, tende a terminare nella nota figura del «leader», (il Capo, signori…). Se la condizione dei partiti in genere, nello stato moderno cosiddetto democratico, è assai precaria, quella dei partiti rivoluzionari volge irresistibilmente all’assurdo. Essi godono di una libertà elargita dallo Stato, che devono per natura impiegare contro l’ordine attuale, la cui difesa è il compito dello Stato medesimo. Ma l’essenziale, come i fatti dimostrano, è che l’atto da cui procede la loro esistenza è un atto di volontà dello Stato. La contraddizione, certo, deriva altrettanto dalla natura dello stato «democratico», dalla sua ibrida costituzione, autoritaria e gerarchica a forma liberale, che dalla natura ideologica e dalla struttura generica e formalistica dei partiti: in particolare, le esigenze da cui sono nati i partiti socialisti sono delle esigenze di fatto, poggiate su condizioni di fatto di ingiustizia sociale, e non si distruggono né con un ragionamento giuridico, né con la soppressione violenta delle formazioni politiche corrispondenti. Ma il risultato è uno: che i partiti sono annientati, e annientati per sempre, dal semplice atto della volontà statale che li dichiara illegali. Non c’è ricorso, fuori della guerra civile, perché il detentore della forza esecutiva è lo Stato… (e) accade precisamente che lo Stato in genere, e quello fascista con specialissima cura, sia attrezzato quasi esclusivamente in vista della guerra civile: al punto da affatto impedire che si venga a tanto, o da liquidare l’incidente in pochi giorni. Questa realtà primordiale del definitivo e disastroso squilibrio tra uno Stato monopolista di ogni forza, di ogni tecnica, di ogni arma, e la società inerme e immobilizzata su cui è installato, la realtà fascista, è quella con cui siamo chiamati a fare i conti. Ha il difetto di rimanere piuttosto indifferente agli ultimi ritrovati della dialettica, compresa la «linea Marx-Lenin-Stalin»…; si tratta di essere e volere integralmente fuori dallo Stato. Cioè fuori dal terreno schematico e semplici­stico della politica (il quale giova ripeterlo, non esiste letteralmente più)… si tratta, per cominciare, di esercitarsi a pensare fuori dalla politica».
Rispondere a chi diceva che «si tratta per cominciare di esercitarsi a pensare fuori dalla politica» assumendosi la difesa del realismo politico, come faceva Rosselli, era inutile perché non di questo parlava Chiaromonte.
Anche nei confronti della situazione italiana il compito principale di un gruppo politico all’estero -suggerivano i «novatori»- avrebbe dovuto essere quello di «esaminare alla radice i problemi cui si va incontro, prescindendo da ogni mito di attesa». In specie bisognerebbe non dimenticare che è implicito nella volontà rivoluzionaria di considerare gli avvenimenti secondo una prospettiva e, oseremmo dire, secondo un tempo, suoi propri, che sono quelli indicati dagli scopi ultimi di essa volontà al di là di ogni sollecitazione di attualità».
Ogni sforzo avrebbe dovuto essere rivolto alla creazione di un movimento politico effettivamente indipendente da ogni preconcetto relativo all’idea di nazione, da ogni pregiudizio di democratismo generico, ma capace di sviluppare e concretare in orientamenti politici di ordine generale i germi vitali del concetto di autonomia. Ma premessa indispensabile per «ricominciare l’educazione del popolo, sostenerlo di nuovo fin da principio nella costruzione di ideali di dignità civile», sarebbe stata di illustrare giorno per giorno quel che è la realtà europea, partendo da un punto di vista rivoluzionario «ma appunto per ciò avverso a qualsiasi dogma, rispettoso della verità intera, ripudiante di ogni controllo di una «politica di partito» …e allo stesso tempo tentare una critica costruttiva delle ideologie e dell’azione svolta dai partiti operai di sinistra… (una) revisione dei principii e dei metodi della lotta per l’emancipazione dell’uomo (non di una anonima massa irreggimentata sotto l’insegna della «classe») dalla schiavitù politica, economica, spirituale; …(una) denuncia spietata dell’ipocrisia «libe­rale» e della faciloneria democratica, riduzione all’assurdo delle speranze riposte in certe «combinazioni» della politica internazionale o in qualche gene­roso impulso dell’opinione pubblica nel cosiddetto «mondo civile»; … contribuire a dare il senso dei «fatti così come sono», a ricercare la verità anche dove essa significa sfrondamento dei nostri affetti, delle nostre più tenaci spe­ranze. E tuttavia agire efficacemente non si sarebbe potuto senza la consapevolezza che «la guerra, il dopoguerra e la crisi mondiale hanno profondamente modificato due fattori essenziali della società moderna: la struttura della stato (che implica pure i rapporti tra economia e politica) e la composizione, nonché le possibilità di azione collettiva, della classe operaia. Non possiamo esporre qui le questioni che sorgono da questi due vastissimi fenomeni. Accenneremo soltanto al problema delle «masse», senza la partecipazione attiva e cosciente delle quali non è pensabile un movimento politico di qualche efficacia. Agli effetti della disoccupazione, della razionalizzazione tecnica, dei parassitismi burocratici, si aggiunge, nei paesi fascisti, la profonda diseducazione delle masse popolari, e del proletariato industriale in particolare. La ricostituzione di solidarietà autonome, di una coscienza di classe, d’un atteggiamento critico (cioè libero e combattivo) dell’uomo sfruttato, irreggimentato, ridotto all’obbedienza passiva, è il compito urgente di ogni azione rivoluziona­ria e quindi socialista. Ma non può riuscire che se si ha il coraggio di cominciare «dal basso», di consacrare le migliori forze non all’appariscente «agitazione», ma all’organizzazione salda di nuclei da cui rigermoglieranno -sotto forme probabilmente nuove- la solidarietà sindacale e cooperativa, le forme necessariamente molteplici di una vita sociale piena».
A una generica organizzazione politica qual era quella del movimento di G.L., del resto assai precaria, e a maggior ragione, alle cosiddette «organizzazioni di massa», i «novatori» contrapponevano la costituzione di gruppi ristretti, vere cellule organiche di vita, animate da un autentico spirito rivoluzionario, impegnate a svolgere un’azione nel vivo terreno delle strutture sociali per conseguirvi delle reali trasformazioni rivoluzionarie. Di qui anche la diffidenza profonda per l’impiego impreciso della parola e anche per la cosa antifascismo: «pensiamo che l’antifascismo debba essere di fatto il contrario del fascismo: cioè non solo affermare principii opposti, ma porre in una prospettiva, in un ordine di importanza, del tutto diversi le questioni e anche i fatti di «attua­lità»… La questione è in fondo se si aspetta una trasformazione sociale o il volgersi d’una banderuola».
Nemici delle «idee fatte», insofferenti per quanto di rozzamente «semplificato» c’è nell’ideologia giellista, («bisognerebbe riuscire a dimostrare che il mondo non si esaurisce in certe contrapposizioni inerti come, ad esempio, quella «comunismo-fascismo-liberalismo» a riportare l’attenzione sui fatti più semplici, e quindi a ridare il senso della vivacità dei problemi»), i «novatori» -con sensibilità schietta e libertaria- rivendicano in nome della società inerme e immobilizzata da una molteplicità di meccanismi di coercizione e di violenza, non delle libertà formali e astratte, ma «quel fatto più complesso che è un’esistenza, un mondo di rapporti concreti e determinati».

QUANDO MARX, BAKUNIN E PROUDHON… Intervista a Franco Melandri

Da Una città n. 22, marzo 1993

Ala vigilia della Prima Internazionale i problemi della sinistra erano già tutti sul tavolo? Quello di casa Proudhon attorno a cui Marx, Bakunin e Proudhon passarono una notte a discutere accanitamente? Ne parla Franco Melandri

Il socialismo è stato irriducibile alle categorizzazioni più o meno “scientifiche”… 
Il socialismo non si può racchiudere in formule, magari “aperte”: il socialismo si può solo narrare attraverso le vite e le parole dei socialisti. Di questa narrazione è paradigmatica la figura del militante e pensatore francese Pierre Joseph Proudhon, socialista libertario ispiratore e avversario di Marx, le cui idee furono fatte proprie dalla destra cattolica o nazionalista e dal sindacalismo rivoluzionario, dal liberalismo più conseguentemente radicale e dall’anarchismo, come dal riformismo più moderato, mai completamente accettate da alcuno. Nell’opera di Proudhon troviamo già tutte le questioni -dalla differenza sessuale al federalismo, dalla libertà individuale alle regole necessarie del vivere in società, dal bisogno di mutamento alla necessità di continuità- che fecero sorgere le idee e i movimenti socialisti, anarchici, riformisti, comunisti.
Si parla ormai apertamente di una probabile fine del Partito socialista italiano, dovuta alla crisi provocata dallo scandalo di Tangentopoli, e si dice pure che tale fine sarebbe anche la fine della tradizione socialista. Eppure il tentativo craxiano si era presentato con il proposito di rinnovare questa tradizione, sganciandola definitivamente dal marxismo…
Fu il discusso “ritorno a Proudhon”, un pensatore fino ad allora quasi dimenticato che aveva cercato di trovare le strade di un cambiamento sociale radicale senza ricorrere alla rivoluzione catartica, escatologica. I primi dibattiti dell’Internazionale furono proprio incentrati su questa problematica e proprio a questo dibattito si riallacciarono Craxi e gli intellettuali che lo affiancavano (Paolo Flores D’Arcais, Luciano Pellicani, Federico Cohen, alcuni dei quali, viste le giravolte politiche craxiane, dopo un po’ lo abbandonarono). Cercando di definire una teoria politica socialista che facesse i conti con la realtà del capitalismo “post-moderno” pensarono fosse necessario andare all’origine di questa stessa tradizione. E all’origine c’è, appunto, anche Proudhon. Questi era un personaggio fuori da ogni schema: autodidatta, per molti anni tipografo, con una cultura enciclopedica, amico di Victor Hugo e di Baudelaire. Avrebbe voluto essere un filosofo, ma, anche se si poneva il problema del grande sistema teorico, era dichiaratamente asistematico ed è anche per questo che da molte sue intuizioni hanno preso spunto le correnti politiche più disparate. La teoria politica più vicina a Proudhon è certamente l’anarchismo, ma nel primo ‘900 anche una parte della destra francese si rifece a lui, così come a lui si rifece Georges Sorel nel percorso teorico che, partendo da una riflessione critica sulla teoria marxista della lotta di classe, lo portò poi a teorizzare la lotta delle nazioni proletarie contro quelle ricche, una teorizzazione in seguito fatta propria dal fascismo. Da Proudhon, seppure indirettamente, trasse ispirazione anche John Stuart Mill per il suo Saggio sulla libertà che è quasi un Vangelo del liberalismo anglosassone. Racconta Mill nella sua autobiografia che l’idea della “sovranità dell’individuo”, centrale nel saggio, egli la trovò già esposta nelle sue linee fondamentali negli scritti di un individualista anarchico americano, Josiah Warren. Questi, in parte influenzato da Proudhon, passò la vita a fondare comunità sperimentali che mettevano in pratica sistemi mutualistici di produzione e organizzazione della vita sociale; alcune di queste comunità vissero per oltre mezzo secolo. Marx diceva di lui che “in Germania gli perdonano di essere un cattivo filosofo perché passa per un buon economista francese, in Francia gli perdonano di essere un cattivo economista perché passa per essere un buon filosofo tedesco”. In realtà non era né un economista, né un sociologo, anche se poi molti lo considerano uno dei fondatori della sociologia, e neppure un filosofo: era uno che aveva la passione per il pensiero e per la politica, che scrisse moltissimo (i suoi scritti completi superano i 40 volumi), che visse e agì in un momento particolare della storia d’Europa: quello delle grandi trasformazioni che portarono all’affermazione del capitalismo e alla nascita dei movimenti socialisti e operai. Marx, che aveva conosciuto Proudhon a Parigi nel 1844, diceva di averlo “infestato di hegelismo” e le discussioni fra Marx, Proudhon e Bakunin, che spesso duravano interi giorni, divennero quasi leggendarie. C’è un aneddoto che dà il senso del coinvolgimento di queste discussioni. Si racconta che una volta Marx, Bakunin e Proudhon si trovarono a casa di Proudhon nel pomeriggio e cominciarono a chiacchierare bevendo del tè vicino al camino. Verso sera giunsero altri amici che parteciparono alla discussione e che nella tarda notte se ne andarono, insieme con Marx, lasciando Proudhon e Bakunin che dissero: “Finiamo il tè e andiamo a letto”. Il pomeriggio del giorno dopo Marx e un altro amico tornarono e, sbalorditi, trovarono Proudhon e Bakunin vicino al camino che, ancora con la tazza in mano, continuavano la discussione della notte precedente.
La frequentazione fra Marx e Proudhon, che personalmente non si erano mai “presi” molto, finì nel 1846, quando Marx, che stava costituendo una associazione di intellettuali socialisti, propose a Proudhon di entrarvi. Proudhon gli rispose che era sempre disponibile a lottare contro tutti i sistemi onnicomprensivi, contro tutte le idee metafisiche che pretendono di ingabbiare la realtà, ma che per far questo non occorreva un’organizzazione. E proseguiva dicendo più o meno: “Ho però idea che a te non interessi questa battaglia e che tu voglia creare un’organizzazione di intellettuali per mettere il cappello di un’ideologia sui movimenti sociali e operai. In questo caso non solo non ci sto, ma sarò un tuo deciso avversario”. Questa rottura personale fra i due fu anche la fine di quell’ambiente culturale e politico che per varie strade portò poi alla nascita della Prima Internazionale e allo sviluppo del movimento socialista e operaio. Una rottura che era nelle cose, dovuta non solo alle personalità antitetiche di Marx, Proudhon o Bakunin, ma soprattutto ai diversissimi modi di pensare che avevano al di là della comune etichetta di “socialista”.
La stessa cosa per lui avviene con la famiglia: se la singolarità di ognuno, che è differenza e non esiste in astratto, non viene vissuta quotidianamente, se non si manifesta in un modo di essere che costantemente la sottolinei, quindi anche in un posto specifico nella società, è destinata a perdersi e tutta la società si impoverisce. La critica che gli venne fatta un po’ da tutti, non solo dalle femministe, ma anche dagli anarchici, dai marxisti e perfino da molti liberali, era che lui voleva una donna relegata in casa a occuparsi dei figli. Era sicuramente una critica valida, e infatti Proudhon, come conferma in molte lettere, era incapace di staccarsi dall’immagine della famiglia contadina, governata dalla madre, in cui era cresciuto, però è anche vero che per lui questo non significava disconoscere o svilire il ruolo della donna. Anzi, lui pensava che proprio questa differenza desse alla donna anche una “capacità contrattuale”, aumentasse il suo peso sociale. Per lui, comunque, il problema fondamentale è sempre stato l’emancipazione delle classi lavoratrici, oppresse da un sistema sociale che sempre più obbediva, e obbedisce, a leggi sue proprie e non ai bisogni e ai desideri degli individui concreti, con le loro contraddizioni, che Proudhon vede sempre come vivificanti. Questo modo di vedere è quello che lo fece essere ferocemente anticomunista: diceva che Marx e i teorici comunisti, col loro prescrivere come la società avrebbe dovuto essere in virtù di una interpretazione della storia, di fatto la volevano trasformare in una immensa galera.
In cosa consiste allora l’anarchismo di Proudhon?
L’anarchismo di Proudhon consiste proprio nel suo rifiuto di ogni assoluto, nella convinzione che, al di là di quanto possono far pensare le contingenze storiche, non esista un centro materiale o simbolico da cui irradi tutto, a parte, ovviamente, l’essere umano e la sua continua interrogazione sulla sua condizione.
Per Proudhon la storia e il destino dell’uomo si giocano nella continua e irrisolvibile antinomia fra gli esseri umani così come sono, con le loro determinazioni storiche e sociali, e la società e il mondo che li circonda. Un mondo che, contemporaneamente, crea i singoli esseri umani ed è creato dall’azione e dai modi di pensare, quindi di agire, degli individui. Da questo modo di vedere dipende anche la sua idea del federalismo. Proudhon era ferocemente contro lo Stato, sua è la famosa frase “essere governato significa essere incarcerato, picchiato, sfruttato, offeso..” e tanti altri aggettivi negativi da riempire una pagina, però era anche consapevole della necessità, per la vita stessa della società, di elementi a cui tutti facessero riferimento. Sosteneva la necessità di fondamenti comuni (una cultura, una serie di principi condivisi da tutti, che per lui sono, contrariamente all’idea di Rousseau, ancora tutti da chiarire e conquistare), ma sosteneva anche che questo non doveva significare la scomparsa dell’autonomia delle singole unità sociali, fossero esse il villaggio o la fabbrica. Per lui ci doveva essere una dinamica continua fra queste unità sociali, collegate fra loro (le fabbriche collegate fra loro in una federazione delle fabbriche, i villaggi in una federazione dei villaggi e così via), intersecate come una rete, e gli elementi comuni a tutti. Non a caso definiva la sua idea di società come un sistema in cui “la circonferenza è ovunque, il centro da nessuna parte”. Non a caso Proudhon chiamò le sue proposte di riforma sociale “mutualismo”; lo chiamò così proprio per sottolineare come tutto ciò che esiste sia in rapporto con tutto e come non sia giusto, ma anzi pericolosissimo, pensare una cosa separandola dalle altre. In questo rifiuto di elevare un qualcosa a ente sovrano e nel continuo richiamo alla necessità che gli uomini pensino a quel che sono e alle loro azioni, sta la dimensione propriamente anarchica di Proudhon.
Ci furono dei rapporti fra Proudhon e il movimento anarchico storico?
Col movimento anarchico propriamente detto, no. Tutti gli storici fanno risalire la nascita del movimento anarchico al congresso della tendenza libertaria della Prima Internazionale tenutosi a Sant Imier nel settembre 1872, mentre Proudhon era morto nel gennaio1865. Ma è anche vero che alcuni fra i principali promotori della Prima Internazionale, fondata ufficialmente nel settembre 1864, erano proudhoniani.
Proudhon, già molto malato, non aderì direttamente all’Internazionale, ma l’Indirizzo inaugurale, il Preambolo e gli Statuti, per quanto materialmente elaborati da Marx, sono tutti basati su una serie di appunti di Proudhon e di Tolain, un operaio parigino che di Proudhon fu amico e continuatore. In seno all’Internazionale l’influenza di Proudhon fu fortissima, soprattutto nei primi anni. Per fare un esempio, ci furono alcune infervoratissime conferenze dell’Internazionale dedicate al problema del diritto ereditario, una questione che veniva posta proprio dai proudhoniani. Proudhon nel 1848 aveva scritto Che cos’è la proprietà, un saggio lodatissimo anche da Marx, e la sua tesi, divenuta proverbiale, era che “la proprietà è un furto” e quindi essa andava combattuta. Ma Proudhon era anche l’autore di una successiva memoria, La proprietà, scritta nel 1862, in cui sosteneva che “la proprietà è la garanzia della libertà individuale”. Egli vedeva chiaramente come il grande capitale, la grande proprietà terriera e la rendita finanziaria fossero causa di ingiustizie, tuttavia sosteneva anche che fra proprietà e possesso c’è una sostanziale differenza. La proprietà è un bene di cui tu ti appropri e usi anche se a esso non hai direttamente contribuito, mentre il possesso è un bene che tu hai contribuito a creare o a mantenere, quindi è direttamente parte di te e tu hai diritto al suo uso esclusivo e lo puoi trasmettere ai tuoi discendenti o a chi più ti aggrada. In questa continuità fra l’uomo e la sua opera Proudhon vedeva la possibilità per ognuno di manifestare la sua individualità e in questo senso diceva che la proprietà era l’unica garanzia per la libertà individuale. Conseguentemente con queste idee i proudhoniani erano per combattere la grande proprietà, per la sua suddivisione in piccole unità a possesso individuale o per la gestione da parte di cooperative, ma erano anche favorevoli alla possibilità che questo possesso fosse trasmissibile agli eredi. Dall’altra parte invece c’erano i comunisti che, conseguentemente con l’idea della proprietà statale di tutto, negavano ogni forma di ereditarietà e in mezzo c’erano Bakunin e qualche altro che erano favorevoli al possesso personale, ma erano contrari alla possibilità di trasmetterlo ereditariamente e pensavano che alla morte di uno tutti i suoi beni, esclusi ovviamente gli effetti personali, dovesse andare alla collettività che li avrebbe redistribuiti. Bene, in queste conferenze -in cui la gran parte dei partecipanti era costituita da operai o piccoli artigiani che arrivavano in Svizzera o in Olanda da sperduti paesini dell’Italia, della Francia, della Spagna o della Germania- la decisione presa fu favorevole alla comunanza dei beni, ma furono molti, e non solo anarchici, quelli che videro come l’idea della proprietà collettiva di tutto, senza alcun contrappeso, pur essendo animata dalle migliori intenzioni fosse destinata a portare non alla libertà e all’uguaglianza, ma alla costruzione di una società omologante e alla edificazione di un apparato politico poliziesco.
(a cura della redazione, maggio 1993)

L’eremita socievole – intervista a Gino Bianco

Da Una città n. 51, giugno-luglio 1996

Intervista a Gino Bianco su Andrea Caffi

Intellettuale militante, socialista, libertario, cosmopolita, pacifista e volontario nella Grande Guerra, rivoluzionario nella Russia del 1905 e del ’17, antistalinista della prima ora, antifascista in Italia e in Francia, Andrea Caffi, vissuto in disparte e in povertà, è una fra le figure più originali della sinistra europea ma le storie del socialismo raramente lo citano…
Questo perché Andrea Caffi non è un pensatore e un militante particolarmente conosciuto, nonostante che, con la sua azione e i suoi scritti, abbia attraversato la storia del socialismo italiano e russo dall’inizio del secolo fino agli anni Cinquanta. Solo recentemente lo si sta riscoprendo, ma ancora gli si dedica meno attenzione di quanto meriti. Il motivo di questo oblìo è forse da attribuire al fatto che il suo pensiero risulta irriducibile a ideologie già costituite. Era certamente, e dichiaratamente, un libertario, ma non fu mai un militante anarchico; era un socialista, ma criticava la politica dei ­partiti socialisti e socialdemocratici; partecipò al movimento operaio russo dei primi anni del secolo, ma fu sempre un antibolscevico; per qualche tempo militò in “Giustizia e libertà”, ma non fu mai un liberalsocialista.
Andrea Caffi era costitutivamente anti-sistematico. Rifiutava ogni ordine di idee fondato su un certo numero di postulati e riducibile a un principio unico; tanto più rifiutava l’idea di trattare la società come un sistema logico o matematico o come un insieme di individui, di gruppi, di meccanismi e fatti materiali, organizzati secondo un criterio unico e dominante. Sapeva che le scienze hanno perduto la grande fede in se stesse che avevano avuto fino alla fine del secolo scorso, e non a caso scriveva: “È entrata in crisi la grande credenza che sostituì le credenze religiose: che la scienza conduce alla saggezza, alla conoscenza di sé e del mondo”. Cionondimeno, criticava anche il “fanatismo relativista”, ossia la concezione che riconduce tutto alle condizioni storiche e sociali.
Ma quello che Caffi ha pubblicato durante la sua vita, e anche quanto pubblicato postumo, nelle due differenti versioni di Critica della violenza e negli Scritti politici, lo rappresenta, per dirla con Montaigne, soltanto “obliquamente”. Di lui occorrerebbe parlare soprattutto come persona, perché la sua vera grandezza fu di essere una grande persona. Nicola Chiaromonte, che fu il più fedele e profondo dei suoi amici-discepoli, nell’introduzione alla raccolta di saggi che pubblicò Bompiani, non a caso lo definisce “l’uomo migliore, il più giusto, che io abbia conosciuto”. La sua grandezza come persona è principalmente dovuta al fatto che pensava “socraticamente”, cioè con gli altri e per gli altri. Nemico di ogni sapere accademico, il suo modo naturale di riflettere era il dialogo, lo scambio di idee faccia a faccia, contro ogni preconcetto e fuori da ogni schema, da cui risultava, per dirla ancora con Chiaromonte, “la visione del fenomeno salvo dai rigori della presunzione intellettuale e del dogmatismo”. Caffi, anche se aveva studiato col filosofo tedesco Georg Simmel e aveva scritto qualcosa insieme al filosofo italiano Antonio Banfi, come lui allievo di Simmel, era soprattutto, per formazione e studi, uno storico. Ma anche come storico la sua concezione era particolare: per lui la storia era semplicemente il ricordo del passato, un passato nel quale non si danno eventi privilegiati e del quale la facoltà mitopoietica è “l’humus primevo e ricorrente”. In altre parole l’originalità profonda del pensiero di Caffi sta nel concepire l’essenza, la verità viva, la “sostanza sacra”, dei fatti umani come una realtà concreta, non come un’idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale.
Insomma, per Caffi il modo di essere costituiva l’aspetto fondamentale…
In effetti, Caffi teneva sempre presente “come” concretamente vengono vissute le relazioni umane, al di là delle categorie teoriche; questo era il suo modo di sentire la società, la natura del cambiamento sociale, la struttura e le funzioni dello Stato. Fu in virtù di questo modo di sentire e pensare che arrivò a denunciare le crepe dei sistemi sociali che rifiutano i costumi e gli usi che storicamente emergono, ritenendosi razionali secondo una razionalità astratta. È anche per questa componente “esistenziale” che dai suoi scritti emerge un esame spregiudicato, approfondito, in più di un punto geniale, delle categorie fondamentali cui ci rifacciamo per dibattere e chiarire i problemi della convivenza civile. Centrali erano per lui le contrapposizioni fra società e Stato burocratico, fra cultura e nazione, fra umanità e violenza. È sempre in conseguenza di questo “esistenzialismo” che, nonostante fosse coinvolto in tutte le passioni del secolo, aveva, come Thomas Mann, un certo sospetto nei confronti della politica. Diceva che bisognava guardarla come si guarda un cane rabbioso.
Caffi era lontano dalla politica come ideologia o militanza e non a caso, in un saggio sulla rivoluzione russa scritto nei primi anni 30, sosteneva che politica e cultura richiedono propensioni incompatibili: la politica, soprattutto quella delle teste quadre, degli apparati rivoluzionari, implica, per dirla con Schopenhauer, l’esercizio della volontà, mentre la creazione culturale, artistica e letteraria, implica quello della contemplazione. Ripeteva spesso che le creazioni dello spirito gli apparivano sempre più efficaci delle imprese politiche. E infatti Carlo Rosselli lo accusò di concepire “Giustizia e Libertà” e la sua azione come una sorta di contemplazione.
Tutto questo, tuttavia, nulla toglieva al fatto che la politica esiste e bisogna cercare di “aggredirla”. Del resto lui l’aveva aggredita sin dagli anni della sua militanza giovanile nel movimento socialdemocratico di Pietroburgo (dove era nato nel 1886 da genitori italiani), poi con la partecipazione alla rivoluzione del 1905, durante la quale venne arrestato, e a quella del ’17. In seguito dovette scappare dalla Russia. Una volta tornato in Italia seguì da vicino l’ascesa del fascismo. Poiché in un lungo articolo sulla rivista Volontà aveva denunciato con nome e cognome il mandante del delitto Matteotti, cioè Mussolini, per evitare l’arresto fu costretto a scappare e riparò, come moltissimi altri antifascisti, in Francia, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1955. Partecipò, anche se indirettamente, alla guerra civile spagnola e durante la seconda guerra mondiale collaborò con la resistenza francese, venendo arrestato dalla Gestapo.
Non si può quindi dire che la politica, nel suo concreto divenire quotidiano, non lo interessasse. Il fatto è che Caffi, come dicevo, distingueva, credo giustamente, la politica come ambito dell’azione dal pensiero, dalla conoscenza storica e filosofica. In sostanza, la politica non aveva per lui un suo statuto specifico, ma era parte della vita e come tale andava affrontata, in essa si agisce e ci si rivela come persone, al di là di quel che si fa o si produce nell’ambito della cultura.
In questa costitutiva “impoliticità” quanto spazio aveva il bisogno di mito, che Caffi contrappone sempre alla logica dell’utile?
Per lui il superfluo, anche nella vita pratica, veniva sempre prima del necessario, era ciò che dava valore e sapore al vivere. Per questo aborriva la logica utilitaristica. Scrisse Note sulla cultura di massa, un saggio che Eliot considerava una delle cose più acute che avesse mai letto, in cui, quale esempio del mutamento del modo di essere delle persone imposto dalla modernità, fa un’analisi della differenza tra il leggere e l’andare al cinema. Il cinema, nonostante si presentasse come fabbrica dei sogni, contribuiva a distruggere la capacità di sognare: la macchina da presa isola la realtà e le toglie quella ambiguità, quelle nuances che, invece, nella lettura restano salve e stimolano la capacità di sognare. In sostanza, la cultura di massa, come la tecnologia e la meccanizzazione del mondo, avevano ridotto sempre di più gli orizzonti mitologici del nostro tempo. In un altro passaggio dello stesso scritto dice che una civiltà si può giudicare tanto più sviluppata, quanto più è attivo e presente l’orizzonte mitologico.
Ma quanta parte delle idee di Caffi è da attribuire alla delusione per la piega presa dalle rivoluzioni cui aveva partecipato?
Certamente gli avvenimenti, non certo pochi, cui partecipò lo segnarono moltissimo. Nei suoi scritti ritorna spesso l’amara considerazione che tutti i grandi movimenti di idee, le utopie, le rivoluzioni socialiste, nel momento in cui si realizzano, rivelano la discrepanza tra il
sogno che le animava e l’effettiva costruzione statuale o sociale che realizzano.
Non era solo la delusione storica, quanto un “dubbio sistematico” (l’espressione
è di Moravia che da giovanissimo conobbe Caffi e lo frequentò fino alla sua morte), derivatogli da una profonda conoscenza storica e dalla sua formazione filosofica influenzata da Simmel e da Nietzsche in primo luogo, a portarlo a pensare che certe caratteristiche della nostra epoca -il livellamento generale, le grandi scoperte scientifiche e l’avvento di tecnologie che impoveriscono l’orizzonte intellettuale e la capacità mitopoietica dell’uomo contemporaneo- stavano creando un mondo sempre meno controllabile.
Caffi insiste sempre sull’elemento della “socialità”. Come la intendeva?
La socialità, per lui, si basa sull’affinità spontanea, non può fondarsi né sul popolo in sé, né, tantomeno, sullo Stato; aggiungeva che dove non c’è spontaneità, c’è forza, c’è violenza.
Per Caffi la socialità è una sorta di “condivisione originaria” come quella che si può ritrovare, ad esempio, fra allievi di una stessa scuola. E infatti, per rendere l’idea di quel che intendeva, citava proprio l’esempio degli allievi del liceo russo nel quale aveva studiato: ragazzi, figli di persone diversissime, appartenenti a tutte le classi sociali, che avevano mantenuto nel tempo un certo modo di essere che li faceva sentire sodali anche al di là delle diverse scelte fatte nella vita. La socialità, il sodalizio, erano il cardine della sua concezione sociale, cardine che sosteneva tutte le sue idee sulla violenza, sulla libertà, sulla necessità di ridurre, se non eliminare, lo Stato.
(a cura di Franco Melandri, giugno 1996)

Le due anime – intervista a Nicola Del Corno e Sara Spreafico

Da Una città n. 163, marzo 2009

Sara Spreafico, saggista e giornalista radiofonica, ha curato recentemente l’antologia Andrea Caffi, Scritti scelti di un socialista libertario, pubblicata dalle edizioni Biblion di Milano (www.biblionedizioni.it), con una prefazione di Nicola Del Corno, storico dell’Università di Milano e condirettore della giovane collana editoriale “Storia, politica, società”, che ospita l’antologia.

Andrea Caffi considerava il socialismo come la realizzazione più alta nella storia dell’umanità, e mi sembra significativo il fatto che si pensi di ripubblicarlo e di rileggerlo proprio in un periodo (politico e culturale) nel quale tutta la tradizione socialista pare dimenticata e rimossa. Parliamo, allora, sia di inattualità di Caffi che di un ritorno a Caffi?
Del Corno. Di Caffi mi ha colpito soprattutto una cosa, la sua spiegazione del socialismo. Caffi afferma che il socialismo è uguaglianza, libertà, diritti per tutti, ma poi dice anche che il socialismo è felicità. Ecco, questa dimensione prettamente esistenziale della felicità è ciò che mi ha spinto a interessarmi a Caffi, ad avvicinarmi a lui, a considerarlo un grandissimo autore che, in qualche modo, dovrebbe essere riletto, ristudiato, rivisto, ripreso in considerazione anche dai nostri partiti della sinistra.
Credo, infatti, debba esistere una sorta di -chiamiamolo così- diritto (propensione o volontà) alla felicità. E felicità, oggi, cosa significa?
A mio modo di vedere che ciascuno possa autodeterminare la propria vita come meglio crede, che un giovane possa trovare un lavoro dignitoso, con un salario e con tutele sufficienti, per riuscire a gestire la propria esistenza. E quindi andare a vivere con chi vuole, appartenga oppure no allo stesso sesso; trovare una casa e poterla mantenere, non ridursi a essere un “bamboccione” fino all’età in cui non si deve più esserlo.
La felicità, dunque, è qui intesa come possibilità di scegliere in modo libero e responsabile la traiettoria della propria vita. Il socialismo deve far proprio questo diritto ad autodeterminare la propria esistenza, cambiandola, modificandola e così via.
Ecco, Caffi insiste su questo argomento, per tale ragione, a mio parere, se egli è inattuale per tantissimi aspetti (forse soprattutto per la carica utopica, visto che le utopie non godono di buona salute ai giorni nostri), però è attualissimo quando rivendica questa possibilità, che ciascuno di noi ha, di essere felice.
Spreafico. Devo dire che non condivido il termine “inattuale”. Proprio negli ultimi tempi, ad esempio, il principio dell’autodeterminazione è stato ribadito da alcune persone, e in particolare mi riferisco al caso di Eluana Englaro, al padre di Eluana, dove invece una forza, il governo, ha cercato di negare ad un individuo la legittima possibilità di scegliere per sé. Ho trovato in Caffi un monito importante: quello di ricordare a tutti che le persone -e lo ripeto spesso nell’introduzione- vanno considerate a tutto tondo, nella pienezza della loro umanità. Per questioni anagrafiche (ho 26 anni) ho cominciato solo recentemente a interessarmi al dibattito politico e mi sono, comunque, resa conto che Caffi è in grado di dare delle parole, delle chiavi di lettura, molto interessanti, attualissime, per interpretare quanto accade oggi.
Questa mattina, mentre camminavo per venire qui, sono passata in Piazza Duomo, dove proprio in quel momento transitava una camionetta dell’esercito. Caffi, ispirandosi a Platone, sosteneva che nella società ideale la forza pubblica (che egli comunque riteneva necessaria) doveva essere relegata fuori dalla città.
La presenza dei militari dentro la città sta, chiaramente, a significare che la società non funziona, che essa si deve difendere da se stessa, poiché crede di aver trovato un nemico dentro di sé.
Riflettendo, poi, sulle questioni economiche, Caffi metteva in guardia sul dirigismo dello Stato e sul crescente interventismo nei tempi di crisi. Viviamo anche noi, in questo momento, una crisi economica che dicono sia molto forte, e cominciano già a delinearsi alcuni interventi dei governi che tendono a influenzare sempre più la vita dei singoli. Caffi mi ha aiutato a capire che non devo -io, come persona formata, autonoma, indipendente- per forza accettare la logica secondo la quale c’è sempre qualcuno o qualcosa di più autorevole di me su di me, ma che è giusto rivendicare il diritto, mio e di ognuno, a non farsi muovere, spostare da altri come pedine. Per me, dunque, Caffi è attualissimo; l’inattualità è nell’utopia, ma in qualunque epoca l’utopia è inattuale perché lontana, difficilissima da costruire.
Per certi versi, Andrea Caffi sembra un uomo dell’Ottocento, mi riferisco in particolare a una formazione culturale che credeva ancora possibile l’enciclopedismo (Caffi è filosofo, storico, sociologo e molte altre cose), nello stesso tempo è un uomo pienamente immerso nel suo secolo, nel Novecento: ne vive le guerre, le rivoluzioni, le fughe, gli esilii…
Spreafico. Oltre a essere un uomo tra due secoli, è un uomo tra più nazioni, è italiano, ma è anche russo, vive in Francia e in Germania. Nasce, nel 1887, a San Pietroburgo da genitori italiani. In quella città, dove frequenta la scuola riformata, avviene la sua prima formazione culturale. Fin da giovanissimo comincia a conoscere il “sottosuolo rivoluzionario” dell’epoca (come lo ama definire), incontra i menscevichi, che lui ritiene essere la parte migliore dei rivoluzionari, più umani e meno inquadrati dei bolscevichi. Più tardi, dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, è il 1907, Caffi scappa dalla Russia e raggiunge la Germania, dove incontra altri italiani, frequenta l’università di Berlino alla scuola di Georg Simmel. Dalla Germania comincia, poi, letteralmente, a camminare per l’Europa: i suoi amici lo ricordano così, Caffi è proprio un camminatore. Cammina molto e si sposta spesso camminando: torna in Italia, nella Firenze della “Voce” di Prezzolini, va in Francia, attraversa quasi tutta l’Europa: è un flâneur.
A Parigi lo coglie lo scoppio della Prima guerra mondiale e fra lo stupore dei suoi conoscenti decide di arruolarsi. Terminata la guerra, il “Corriere della Sera” gli offre l’incarico di corrispondente da Costantinopoli. Per lui è soprattutto l’occasione di tornare verso Est. E quando giunge a Costantinopoli, decide di fare ritorno in Russia, per l’attrazione e per l’amore che ha nei confronti di quel paese, dove però sta prendendo forma la dittatura di Stalin.
Trova un impiego presso il ministero degli esteri, dove però comincia a fare cose poco ortodosse per non dire illegali, come produrre dei documenti per chi vuole fuggire dal regime. Rimandato in Italia, è il 1923, incappa nel fascismo e non può anche qui fare a meno di impegnarsi nella propaganda contro il regime nascente: diffonde materiale a stampa sarcastico, critico. Mussolini è “lo sparafucile romagnolo”. E’ ancora in Italia nei mesi dell’omicidio Matteotti, ma più tardi è costretto a lasciare il paese -perché sotto minaccia di arresto- e a riparare in Francia.
A Parigi conosce Rosselli e il gruppo di “Giustizia e Libertà”, con i quali comincia a collaborare pur non approvandone, in tutto e per tutto, le modalità di azione antifascista. Ritiene, infatti, che Rosselli abbia un’idea vecchia di antifascismo, nella quale gli sembra di cogliere dei residui culturali che risalgono alla democrazia liberale dell’Italia giolittiana.
Mentre scrive di antifascismo con l’obiettivo di svecchiarlo e di liberarlo da certa retorica risorgimentale, lavora in maniera occasionale, collaborando a riviste e vivendo -come racconta chi l’ha conosciuto- in modo decisamente strano. Caffi dà l’impressione di lavorare giusto quanto basta per guadagnare quello che gli serve per mangiare. Spesso altrimenti ripudia il lavoro.
Nel 1940, da Parigi scende verso il Sud della Francia e raggiunge gli anarchici a Toulouse, dove viene torturato dal regime di Vichy, finché un clochard suo amico lo scagiona di fronte alle milizie francesi. Muore a Parigi di una malattia incurabile il 22 luglio del 1955. E’ sepolto a Père-Lachaise.
Del Corno. A questo ritratto posso aggiungere una riflessione che non è mia, ma di Alberto Moravia, che la svolge nell’introduzione alla prima biografia di Caffi, quella scritta da Gino Bianco.
Moravia parla di un uomo di due secoli, con diverse culture, diversi “padri spirituali”, e coglie bene nel segno quando dice che delle due anime caffiane, una era quella illuminista francese, seguendo la quale cercava di spiegare il mondo partendo sempre e comunque dal dubbio, e l’altra era quella del populismo russo, che lo conduceva, invece, a solidarizzare in ogni modo coi ceti subalterni. Moravia ha ragione quando puntualizza questa duplice ispirazione nel pensiero e nell’azione di Caffi. Uomo dell’Ottocento, ma direi quasi del tardo Settecento, vista la derivazione illuminista e la costante propensione a studiare, a investigare, a conservare l’approccio enciclopedico di cui parlavi.
Il suo razionalismo convive, però, con la costante solidarietà per gli umili e per gli oppressi, che lo porterà a conoscere, ad esempio, il clochard che gli salvò la vita. Essere amico degli ultimi, come vedi, può servire anche nella vita di tutti i giorni!
La produzione scritta di Caffi non è esorbitante (tanti intellettuali impegnati hanno scritto molto più di Caffi), ma quello che risulta estremamente interessante è la persona di Caffi, il camminatore, il girovago. È molto azzeccata una osservazione di Gino Bianco che sottolineò come di Caffi convenga parlare come persona, dal punto di vista biografico, ancora prima che come autore. Cosa ne pensate?
Spreafico. Bianco ha ragione quando dice che bisogna parlare di Caffi come persona. Del resto, serve poco teorizzare il socialismo, se non lo si pratica, e la vita di Caffi è la testimonianza di un vero socialista, che ha vissuto la sua esistenza a tutto tondo. Caffi è quello che parla coi clochard, che cammina per l’Europa, che studia di tutto.
Del Corno. C’è un altro tema rilevante messo in luce da Bianco, quello della “filia”, dell’amicizia, dell’empatia e della solidarietà reciproca. Infatti il socialismo di Caffi è da intendersi in senso etimologico: viene dalla società. Come ha messo in luce Sara, non sono tanto le letture, i classici del marxismo, o dei revisori di Marx, degli ortodossi o degli eterodossi del marxismo a creare il suo socialismo. Il suo socialismo nasce sul campo, dai rapporti di empatia e “filia” che lui riesce a creare con chi si trova di fronte.
Ancora una volta mi vengono in mente le pagine di Moravia che ricorda il suo incontro con Caffi e di come viene conquistato da questa stranissima figura (stranissima anche da un punto di vista fisico). Moravia fa una descrizione molto divertente di come si presentava il personaggio Caffi, una figura che destava subito simpatia al primo incontro, capace di mettere sempre a proprio agio gli interlocutori.
Spreafico. Una nota di colore. Caffi lasciava straniti i suoi interlocutori anche per un altro aspetto: si presentava di solito in abiti molto trasandati, ma con acqua di colonia spruzzata in ogni dove. Pare non avesse mai una lira, ma quei due soldi che aveva li usava, evidentemente, per comprarsi l’acqua di colonia!
Per lungo tempo, se si esclude la rivista “Tempo presente” di Chiaromonte e Silone, quasi nessuno ha parlato di Caffi. Negli ultimi vent’anni, invece, la sua figura è ricomparsa nel dibattito culturale, anche se non ancora sufficientemente…
Del Corno. Lo stesso Rosselli fino a qualche anno fa non è che se lo filassero poi molto!
In generale, si nota una riscoperta di percorsi politici e biografici di intellettuali critici, collocati fuori oppure ai margini dei partiti tradizionali, che del resto sono crollati …
Del Corno. La tua osservazione è sicuramente sensata, molto giusta. Fino a poco tempo fa non c’era spazio per gli eretici e anche lo stesso Rosselli era stato posto nel dimenticatoio. È tornato in auge agli inizi del Duemila perché un bel giorno Veltroni ha scoperto che c’era anche Rosselli, salvo poi dimenticarsene quando è comparso Obama!
E’ davvero così, agli inizi del Duemila sembrava fossimo tutti rosselliani, così come intorno alla metà degli anni Novanta eravamo tutti tocquevilliani. Un centro studi dei Ds era intitolato a Tocqueville, che era sicuramente un liberale ma anche un conservatore. Insomma, la cosa mi sembrò eccessiva. Per tornare al punto dell’intervista, se -per usare un brutto termine- verranno sdoganati gli “eretici”, sarà solo un bene. A mio parere, in realtà, la scomparsa dei partiti di massa è un aspetto negativo, perché toglie il coinvolgimento della politica, basta vedere come sono strutturati, oggi, i due principali schieramenti politici: manca una classe dirigente locale, manca una formazione politica e, così, pochi leader tengono in pugno tutto il potere decisionale. Questo è un fatto negativo. Ma se tale cambiamento porterà, come è auspicabile che porti, anche all’emergere degli “eretici” e alla fine dei legami tra interessi partitici e studi di storia politica (per cui, fino a poco tempo fa, ciascuno studiava solo la storia dei propri partiti), allora si sarà raggiunto almeno un risultato positivo.
Certo, pensare che Caffi diventerà protagonista del dibattito politico degli anni a venire mi sembra azzardato. Vediamo come andrà a finire, speriamo che i leader della sinistra si rileggano Caffi, lo studino, lo facciano conoscere, ma temo invece che saremo sempre in pochi a leggerlo!
Spreafico. E’ difficile che Caffi possa influenzare un partito, un movimento, però può influenzare le persone e, ad esempio, gli studenti di Nicola che lo leggono per preparare un esame. Possono nascere delle idee, delle buone indicazioni, che aiutino a formare le coscienze.
Del Corno. La nota di Sara sulle possibili suggestioni di Caffi è vera. Ho notato, infatti, che quando a lezione leggo Caffi, Rosselli, Gobetti, Berneri, vedo che da parte degli studenti c’è ricezione, li vedo partecipi, prendono appunti, agli esami rimangono colpiti da ciò che leggono, dicono: “Ah beh, però settant’anni fa c’era qualcuno che diceva queste cose!”. Li sentono molto attuali e suscitano in loro una serie di riflessioni, poi magari vengono a chiedermi la tesi su uno di questi intellettuali. Speriamo che queste riflessioni non siano contingenti agli esami, alla tesi, ma che rimanga qualcosa, per cui a distanza di dieci, venti, trent’anni, di fronte a particolari eventi della vita, si ricorderanno: ah ma io per quell’esame ho studiato Caffi, che diceva queste cose e non aveva torto… Avremmo vinto, se così fosse, la missione e la scommessa di aver riproposto Caffi.
Credo che autori come Caffi oggi possano dirci due cose. Primo, regalarci una lezione di autonomia e di indipendenza rispetto a partiti e “chiese”. Secondo, ricordarci che un tempo, tra Otto e Novecento, la cultura della sinistra era molto più creativa, varia e plurale di quella prevalentemente autoritaria e statalista che poi si è affermata nel corso del XX secolo.
Del Corno. Sì, c’erano tanti socialismi, tante sinistre, c’era una discussione più aperta, più libera, più franca, più colta probabilmente. Non c’era quella ricerca spasmodica del consenso per cui si tende a unificare, a trovare slogan, parole d’ordine, con tentativi esasperati di sintesi, per cui chi è eretico, ovviamente, rimane fuori ed escluso dalle formule preconfezionate.
(a cura di Carlo De Maria)

Sull’anticomunismo di sinistra – un dibattito

Da Una città n. 146, marzo 2007

Alcuni giorni fa, per caso, a partire dalla mail di un collaboratore redazionale, si è sviluppato un dibattito che proponiamo.

[…] Non capisco però una cosa (e non la condivido): che necessità c’è oggi di declinarsi -in negativo – con l’anticomunismo….? Perché non pensare invece all’altra tradizione -in positivo- come un socialismo pluralistico, pluriassociativo, liberale e libertario….?? A presto!
Thomas Casadei

Thomas, ma magari! Ci sono almeno due problemi però. Il primo, di principio, è che il pluralismo non vuol dire Berneri, Rosselli, Chiaromonte, Caffi, Colorni, ecc. più Togliatti. Non vuol dire tenere insieme l’assassinato (Berneri) e l’assassino (Togliatti), il democratico e il totalitario.
Secondo: quale tradizione è presente, forte, celebrata e rinnovata in Italia? Quella dei Rosselli, ecc.? A me non sembra proprio. L’Italia è un paese in cui Solgenitsin non è stato neanche letto, in cui nessuno si è commosso per i milioni di morti da comunismo e nessuno si è mosso per i polacchi; in cui abbiamo ancora due partiti comunisti, in cui l’altro partito della sinistra si divide perché una parte vuol abbandonare la parola socialista per salvare il proprio passato comunista e gli altri, per lo stesso motivo, ci si attaccano, e tutti felicemente statalisti; in cui l’unico giornale uscito dal 68 (in qualche modo) si professa tuttora “comunista”; è il paese dove i comunisti possono scrivere autoagiografie ed essere celebrati in tv come grandi personaggi della storia repubblicana, dove in ogni città ci sono vie dedicate a un Togliatti che diresse il pogrom contro i trotzkisti e gli anarchici in Spagna, invocò i carri armati contro gli operai di Budapest e si oppose alle rivelazioni sui crimini di Stalin; in cui gli ex del 68, quando va bene, dicono che non poteva andare diversamente, che è stato importante essere stati comunisti per non esserlo più, in cui non si dice mai la verità sulla violenza; è il paese in cui se a Bologna i cosiddetti movimenti vogliono celebrare il 77, si fa un buffet chiamato “cantunzein”, in onore della distruzione del ristorante di piazza Verdi che fu un atto di puro squadrismo. In questa situazione, poi, qualche anima bella si chiede perché in Italia si riproduca periodicamente anche il partito delle Brigate rosse comuniste. Scusa lo sfogo.
Gianni Saporetti

… sul piano dei principi, l’anticomunismo va ancora benissimo a mio parere. In una galleria ideale può stare al fianco di antifascismo e antirazzismo. Del resto, storicamente, se si guarda con favore a una sinistra libertaria e pluralista non si può che essere anticomunisti. C’è poco da fare e da discutere, secondo me.
Non bisogna però semplificare e leggere la storia per semplici antagonismi: Berneri/Togliatti, ad esempio. Altrimenti sfuggono molte cose. Il comunismo italiano non è stato solo Togliatti. Pensiamo a molti militanti di base e quadri sindacali comunisti che nel Mezzogiorno, tra la fine degli anni 40 e gli anni 50, lottavano contro i potentati locali, in condizioni difficilissime.
Pensiamo anche ad alcuni grandi amministratori locali degli anni 70, sinceramente interessati all’autonomia comunale. Penso a Renato Zangheri, che era considerato dagli avversari “quasi un liberale”. In conclusione, per quanto mi riguarda personalmente, l’anticomunismo rimane un mio riferimento intellettuale, ma con la consapevolezza della complessità che ho provato ad accennare. Credo che per una rivista interessata più alle storie di vita che ai principi astratti, non sia molto utile impostare una discussione sull’anticomunismo, che comunque rimane fermo e implicito nella scelta meritoria dell’Altra Tradizione.
Un caro saluto.
Carlo De Maria

Sono d’accordo con Carlo. La sua precisazione è doverosa. Ripensando criticamente al comunismo credo sia opportuno utilizzare maggiore cautela. Raccogliere il suo invito a non dimenticare ai molti militanti e quadri di base che hanno vissuto l’adesione al comunismo come alla forma migliore di (auto)governo dell’umanità, è indispensabile.
Inoltre le parole pesano e spesso cristallizzano il loro significato nella contingenza in cui sono nate. Berneri e Togliatti, vittima e carnefice, erano in Spagna entrambi per combattere i campioni dell’anticomunismo internazionale.
Per decenni l’anticomunismo è stato monopolio dei nemici del popolo. Anche nell’attualità chi si erge a rappresentante dell’anticomunismo è difficilmente individuabile come amico e possibile alleato. La questione è complessa, non è bene sintetizzare troppo i concetti. Del resto essere antistatalisti non credo voglia dire ad esempio rifiutare la scuola pubblica ed essere libertari non necessariamente significa rifiutare ogni forma di organizzazione strutturata. Dichiararsi antistatalisti e libertari non può significare in automatico guardare ai comunisti come nemici. Quello della storia e del ruolo del comunismo in Italia e nel mondo è una riflessione che va fatta fino in fondo, per riscoprire e rivalutare il ruolo, la forza ideale e l’attualità di chi è uscito storicamente sconfitto dal confronto con quella Tradizione. Se lo scopo della discussione è anche quello di liberarsi dal peso opprimente del comunismo è bene che i comunisti stessi ne vengano coinvolti. Allora è forse meglio chiamare alla riflessione sul disastro del comunismo e sul pensiero e l’azione della sinistra non comunista piuttosto che definire confini definitivi e insormontabili.
Rodolfo Galeotti

Partirei da una frase di Jorge Semprun: chi non vuole parlare dello stalinismo dovrebbe tacere anche sul fascismo. Io sento questa frase come una scudisciata. Perché nella mie vite politiche, compresa quest’ultima, non c’è alcuna proporzione tra antifascismo e antistalinismo. Non parliamo dell’anticomunismo, totalmente assente.
Il comunismo ha goduto di una memoria selettiva. Anzi, sul comunismo la memoria si è addormentata. Carlo e Rodolfo ci ricordano giustamente quanti compagni hanno dedicato la vita o sono anche morti per l’ideale comunista. E non c’è dubbio che la quasi totalità di questi compagni intendesse l’ideale comunista come il sogno di un futuro di libertà, di uguaglianza, di pace. Questi compagni sono da considerare vittime del comunismo e dei comunisti al potere. Proprio per il rispetto che essi meritano non si può dimenticare cosa è stato il comunismo. Sento forte il desiderio di recuperare il tempo perduto sradicando in me e attorno a me ogni indulgenza sul comunismo.
Mi è molto difficile non fare “precipitare” l’analisi, per due ragioni. La prima è che la crisi del comunismo non è un fatto recente. Chiaromonte, Herling, Nagy, Kuron, Havel (cito nomi quasi a caso) hanno detto, scritto e fatto abbastanza perché tutti noi capissimo tutto quello che era sufficiente capire. Già nel ‘68. Non l’abbiamo capito. E adesso ci occorre dell’altro tempo? Ma quanto ancora?
La seconda è che questa incapacità, generalmente colpevole e insincera (sto parlando anche di me), di fare i conti con il comunismo crea enormi danni nel presente e per il futuro. A fare una battaglia anticomunista non c’è dubbio che ci si trova in cattive compagnie. E’ un ulteriore danno causato dai nostri ritardi.
P.s. Nella seconda metà del 2006 sono usciti, tra gli altri, due libri sul 1956 in Ungheria (Bettiza e Sebestyen) e anche uno del nostro amico Clemente Manenti. Vorrei avere i dati del venduto e confrontarli con quelli della Rossanda e Ingrao.
Massimo Tesei

[…] Resto dell’idea che sia fondamentale continuare a progettare il futuro e attuare buone prassi ispirate ai valori di una “sinistra plurale” quale Una Città -nella sua fluidità- rappresenta. Di certo un’attenta e meditata analisi delle culture politiche del passato è imprescindibile, e tra queste certamente un’indagine seria e rigorosa merita anche la tradizione del comunismo italiano in tutte le sue articolazioni (non credo si possa parlare di una tradizione compatta e monolitica come invece si desume dalle prese di posizione di Gianni Saporetti).
Spero davvero si possa ragionare e discutere insieme di tutto ciò anche in futuro: di certo io non prenderò le parti di una tradizione che -anche per ragioni anagrafiche- non mi è appartenuta, mi riprometto però di sollecitare una ricognizione profonda su un movimento che per il nostro paese -tra luci ed ombre, errori e limiti- ha saputo dare speranze e diritti di cittadinanza a milioni di cittadini e realizzare importanti conquiste per i più deboli (e in connessione con questo apprezzo e condivido quanto ha scritto Carlo De Maria).
La storia non è mai in bianco e nero, come insegna il preziosissimo lavoro di Una Città: è giunto forse il momento di affrontare -andando oltre lo “sfogo” e la netta contrapposizione manichea ed ideologica- anche la stratificata tradizione del comunismo italiano.
Thomas Casadei

Credo che la riflessione sull’anticomunismo sia necessaria, anche se non so quanto prioritaria.
Necessaria perché, per esempio, di quel comunismo che uccideva e umiliava nulla ho sentito a scuola. Nel mio manuale di storia delle superiori c’era una pagina sui gulag. A 16 anni qualche falce e martello l’ho disegnata sul banco.
Il Pci ha tante colpe. E se non le elenco non è per sminuirle. Ma non si può negare cosa ha rappresentato per anni per tante persone: la democrazia, la libertà, i diritti, l’antifascismo. E credo che bisogna ben distinguere cosa era l’Urss da quello che è stato il “comunismo in Italia”, e ancora le “responsabilità dei dirigenti”, dalle “speranze e dalle lotte della base”. Tante conquiste che oggi abbiamo e che ogni tanto sotto l’onda di un revisionismo qualsiasi vengono messe in discussione arrivano da queste storie (e penso all’aborto, ai diritti sul lavoro…). E se una riflessione va fatta, credo che debba essere soprattutto una riflessione intellettuale sull’individuo, il suo ruolo, le sue priorità, le sue libertà.
Non credo che si tratti di contrapporre Togliatti a Berneri. Certamente il silenzio che il Pci si è portato dietro per anni ha generato mostri. E’ che oggi si è sempre più in cattiva compagnia quando li si denuncia, e si diventa strumento. Quelli che si presentano come i nuovi “liberi pensatori”, che hanno fatto un percorso personale di “sdoganamento”, sono oggi i Ferrara, i Feltri… le “conversioni” dei Giovanni Lindo Ferretti mi spaventano. E non tanto perché ha trovato Dio, li ci vedo l’umano, ma perché si è sentito “sollevato da un peso quando ha votato centro-destra” e perché “preferisce i suoi cavalli che copulano” piuttosto che andare a votare il referendum sulla procreazione assistita. E mi fa paura anche il D’Alema del “forse uccidere Mussolini è stato un errore”.
Alla caduta della cappa corrisponde anche la perdita del criterio e del valore. E troppo spesso l’anticomunismo oggi è in bocca a questa gente qua. Bisogna mantenere fermi certi bastioni. Perché nella nostra storia il comunismo ha spesso voluto dire anche antifascismo. E stanno cadendo gli ultimi bastioni. La Repubblica nata dalla Resistenza è ancora un valore per la mia generazione, forse, non credo che lo sarà per la prossima. La storia prende le distanze. E l’idea che mi faccio è che la lotta ideologica violenta che ha opposto mio nonno a suo fratello lascerà spazio a un qualunquismo disarmante (pensate ai dibattiti pro e contro la pena di morte a Saddam, i paralleli con Mussolini).
Francesca Barca

[…] Il comunismo è stata una catastrofe planetaria, di vite -centinaia di milioni di vite; non esiste un solo luogo geografico, un solo momento storico dove si sia realizzato senza una tragedia, una carneficina, una dittatura, una apocalisse. Vorrà dire qualcosa sulla bontà della teoria e dell’esperimento? In Italia è stato diverso perché non si è realizzato.
Questa esperienza dovunque totalitaria ha danneggiato e cancellato lo spirito generoso dei tanti militanti di base, che però mi lasciano la domanda: che avrebbero fatto i tanti volenterosi compagni se avessero vinto con il pluralismo, la democrazia, i gay, i diversi, le differenti sensibilità religiose? Cuba è lì a ricordarci che anche quella esperienza apparentemente eterodossa non era altro che una delle tante sfumature del totalitarismo comunista.
Sono d’accordo con chi afferma che l’incapacità “colpevole e insincera (sto parlando anche di me), di fare i conti con il comunismo crea enormi danni nel presente e per il futuro” e con chi dice che “il pluralismo non vuol dire Berneri, Rosselli, Chiaromonte, Caffi, Colorni, ecc. più Togliatti. Non vuol dire tenere insieme l’assassinato (Berneri) e l’assassino (Togliatti), il democratico e il totalitario”. Perché non aver affrontato ancora in modo radicale e convincente quello che il comunismo ha prodotto come falsa coscienza, doppiezza morale, scostamento tra fini e mezzi ha come prezzo che ancora oggi in Italia si fatica a sinistra a scrollarsi di dosso inutili pesantezze, fumisterie ideologiche e pratiche dannose.
Affrontare un discorso sull’anticomunismo di sinistra oggi in Italia significa smascherare tanti atteggiamenti superficiali e dannosi: il terzomondismo guerrigliero che ancora alberga fecondo in rifondaroli e simili; la logica dello scontro amico-nemico; la giustificazione dei propri “figli di puttana” (vedi Russo Spena con il caso Battisti); ragionare per miti (Che Guevara, Fidel); dare del traditore e isolare chi la pensa diversamente (oggi sono Ichino e Lula), scegliendo partner imbarazzanti (oggi è Chàvez o Casarini).
Non basta professare la nonviolenza, rifarsi a Gandhi o S. Francesco se la propria storia e tradizione non viene affrontata criticamente e superata. Non si può aggiungere e stratificare continuamente, va anche tolto. L’unità tra fini e mezzi derisa dalla saccenza comunista chiede un bagno d’umiltà e di riconsiderare sotto una nuova luce tutto: si è nonviolenti nella pratica e Gandhi aggiungeva che insieme si doveva non-mentire e non-collaborare…
Anche per questo ragionare sull’anticomunismo di sinistra è importante e necessario, non solo per rendere giustizia, ma anche per evitare appropriazioni indebite ed errori che oggi come ieri a sinistra si continuano a fare per falsa coscienza, confondendo terroristi, resistenti, oppressori e dittatori populisti tutti purché impegnati a fermare un Occidente odiato per complesso di colpa.
Luciano Coluccia

[…] Vorrei togliere dal tappeto un punto su cui, forse, Gianni ha informazioni diverse dalle mie.
Ha scritto: “Togliatti che diresse il pogrom contro i trotzkisti e gli anarchici in Spagna”. Diresse è parola pesante: vuol dire che era lì e dava gli ordini. Ora, per quanto ne so, Togliatti arrivò in Spagna nel luglio del 1937, la repressione di Barcellona inizia il 5 maggio precedente e si conclude in pochi giorni.
Carlo De Maria, in una intervista a Una Città: “I fatti accertati sono questi: Berneri, insieme con un altro anarchico, Francesco Barbieri, venne prelevato da casa nel tardo pomeriggio del 5 maggio ‘37 (durante le famose ‘giornate di maggio’ in cui a Barcellona si arrivò allo scontro armato fra comunisti e forze governative, da una parte, anarchici e trockisti del Poum, dall’altra) e i cadaveri dei due vennero ritrovati per strada durante quella notte. Come dimostrano alcune carte di polizia, che ho consultato all’Archivio Centrale dello Stato e che riassumono l’autopsia praticata sui corpi, Berneri venne colpito con due colpi di pistola alle spalle, a distanza ravvicinata, dall’alto in basso. “Il grido del popolo”, organo comunista che si pubblicava a Parigi, scrisse il 29 maggio (cito velocemente): ‘Camillo Berneri è stato giustiziato dalla Rivoluzione democratica, a cui nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa’”.
Non ignoro che esiste una teoria secondo la quale Togliatti era in Spagna già da prima, dal 1936, ma non sono riuscito a trovare, nemmeno nelle pubblicazioni più anticomuniste, un documento, un indizio, una testimonianza che così fosse. Fino a che i documenti non saltano fuori dobbiamo considerare Togliatti assai lontano da Barcellona in quel tragico maggio 1937.
Ma, per amore di discussione, supponiamo pure che fosse in Spagna: questo vuol dire che “diresse”? Purtroppo, da alcuni anni, siamo inseguiti da commemorazioni, trasmissioni televisive, giornalisti che si improvvisano storici e soubrette che discutono con loro nel salotto di Vespa. La storia è altra cosa. Certo, Togliatti, aveva influenza sui comunisti spagnoli, in particolare su Dolores Ibarruri, ma nel quadro di una guerra civile le cose sono confuse, contraddittorie e difficilmente controllabili. In Spagna erano presenti altri dirigenti comunisti che pesavano quanto e più di Togliatti, a cominciare da Vittorio Vidali e da un italoargentino assai più sanguinario di quanto fossero gli altri: Victor Codovilla. La repressione di anarchici e trozkisti a Barcellona aveva più a che fare con l’ossessione di riprendere il controllo della città e delle sue telecomunicazioni, nelle mani del Poum, che con la battaglia ideologica.
Chi ha letto ciò che ha scritto Orwell in “Omaggio alla Catalogna” non può non aver capito il clima di caos di quelle giornate, in cui di “direzione” ce ne fu ben poca. Certo, non stento a credere che Togliatti approvasse la repressione. Non ho difficoltà a credere che tutti i dirigenti comunisti passati alla scuola di Stalin avessero perso il senso della misura, se non la ragione.
Tuttavia, letture giovanili mi fanno pensare che Togliatti sia stato più volte in disgrazia agli occhi della leadership sovietica (una prima volta proprio dopo la Spagna) e che, all’offerta di lasciare il partito italiano, nel dopoguerra, per andare a dirigere l’Internazionale, oppose un cortese rifiuto. Dipingerlo come un sanguinario mi pare faccia violenza alla verità. Ma, poiché non ho particolarmente a cuore la memoria di Togliatti, se si hanno informazioni diverse mi piacerebbe saperlo.
Fabrizio Tonello

Fa bene Fabrizio Tonello a problematizzare.
Se possiamo affermare con sicurezza che i sicari di Berneri siano di parte comunista (proprio per la brutale rivendicazione dell’assassinio fatta dal “Il Grido del popolo”, Parigi, 29.5.1937), non possiamo dire che dietro la decisione di eliminare Berneri ci fosse senz’altro Togliatti. A me pare difficile che non sapesse (dovunque si trovasse) della decisione di ammazzare un noto esponente antifascista italiano e non l’avesse perlomeno accettata, ma queste sono solo supposizioni di nessun valore.
Va detto che l’omicidio di Berneri non rientra semplicemente negli scontri avvenuti a Barcellona per il controllo della città. Berneri venne ucciso, approfittando di quelle giornate convulse, per gli articoli di fuoco che scriveva in quei mesi contro il regime di Mosca e i suoi alleati in Spagna. Articoli che avevano già provocato molte polemiche all’interno della sinistra. Venne ucciso per il suo anticomunismo.
Togliatti rientra in ballo nel 1947, quando polemizza con Salvemini circa l’omicidio di Berneri. Quell’anno, Salvemini, già maestro di Berneri all’Università di Firenze, affermò sulla rivista “Il Ponte” che il suo allievo era stato assassinato dai comunisti (come i Rosselli erano stati assassinati dai fascisti), mentre Togliatti ebbe la sfrontatezza di scrivere su “Rinascita”, dopo aver offeso Salvemini, che Berneri era stato colpito da una pallottola vagante durante quelle giornate confuse.
Liberandomi del tutto dal lessico storiografico, è questa menzogna che a me fa schifo (al di là del coinvolgimento o meno di Togliatti nell’assassinio). Ho l’impressione che siano aspetti della figura di Togliatti di cui raramente si parla negli ambienti culturali e istituzionali legati alla tradizione comunista. Siamo molto lontani da ogni nobiltà della politica.
Carlo De Maria

Di cosa parliamo quando parliamo di “comunismo”? Sotto questo nome/concetto, infatti più di uno (ad es. i comunisti italiani di Diliberto), con generalizzazione alquanto ardita e non senza silenzi o borbottii, mette assieme, sullo stesso piano Marx ed Engels con Lenin, Togliatti, l’Unione sovietica, Cuba, la Cina maoista, vedendo fra di loro un “filo rosso” continuo, necessario e necessitante. Altri, invece, (e penso a Rifondazione, ma anche a qualche gruppo trockista che oggi parla di “socialismo libertario”), con cesure altrettanto ardite, separano Marx ed Engels e le loro teorizzazioni dal concreto della Rivoluzione russa, mentre altri ancora tengono a sottolineare che non si possono addossare le colpe, i silenzi, gli errori della dirigenza dei vari pc ai tanti iscritti e militanti comunisti che, in buona fede e volendo giustizia e libertà, hanno contribuito a fare anche dell’Italia un paese democratico e liberale (seppure, aggiungo io, con mancanze e problemi tutt’altro che secondari ed insignificanti). Ora, rispetto a tutto questo, a me pare che alcune questioni vadano rese ben chiare. E’ infatti vero che i “militanti di base” non possono essere ritenuti responsabili di quanto, spesso segretamente, sapevano e facevano le direzioni, tuttavia non può neppure essere dimenticato che non pochi di questi militanti (e lo dico avendo esempi di tutto ciò nella storia della mia famiglia), una volta giunti a conoscenza di parecchie malefatte (ad es, il come avveniva la socializzazione in Cecoslovacchia o i campi “di lavoro” per i dissidenti in Jugoslavia) hanno, più o meno tranquillamente, accettato di tacere, come ben poco, o nulla, hanno detto, neppure qualche domanda seria, sulla rivoluzione ungherese, sui moti polacchi e tedeschi degli anni ‘50 e così via. Il problema è che questi silenzi, questa assenza di domande, certo in buona fede, erano tranquillamente accettati perché in tutti, dirigenti e soprattutto base, era generalizzata la convinzione che il comunismo, cito a memoria, “movimento reale che cambia lo stato di cose presente”, fosse non solo giusto, ma soprattutto, “la chiave dell’irrisolto enigma della storia” (Marx), e che, quindi, al massimo potessero episodicamente sbagliare alcuni dirigenti, non certo i partiti, ed i loro massimi dirigenti, o i “paesi socialisti” (cosa che a me ricorda il Woitjla che dice che, nella storia, a sbagliare sono stati dei cristiani, non la Chiesa). Questo fideismo -che certo non può far condannare in blocco tanti militanti, ma che rende ancor più responsabili tanti dirigenti preparati e colti come Togliatti, Amendola, Ingrao, Rossanda, ecc.- è stato il primo dei cancri di cui il comunismo in quanto movimento storico si è fatto propagatore e incubatore, ed è quanto ha fatto sì che in esso, nella sua storia, non sia possibile trovare o creare linee di frattura nette. Marx non avrebbe, probabilmente, voluto, ed accettato, quello che è accaduto nel corso della Rivoluzione russa, così come certamente Lenin non era Stalin, tuttavia non possono essere dimenticati né i metodi calunniatori, mestatori ed ambigui che Marx ed Engels adottarono, a fianco della legittimissima (per quanto, a volte, intrinsecamente scadente) polemica teorica contro Proudhon, Bakunin, Jules Guesde e gli anarchici ed i socialisti riformisti libertari durante la Prima internazionale, così come non è possibile dimenticare né il La liberté, pour quoi faire? che Lenin oppose alle rimostranze sulla mancanza di libertà nella nascente Unione sovietica avanzategli da Armando Borghi, delegato della Internazionale sindacale rossa, e neppure il fatto che (tralasciando la questione della rivoluzione makhnovista in Ucraina) proprio Lenin e Trockij furono coloro che distrussero il tentativo sovietico attuato, nel 1921, a Kronstadt (la “perla rossa della rivoluzione”, come era definita dalla stampa ancora nel ‘20) da socialrivoluzionari di sinistra ed anarchici, stanchi dello strapotere poliziesco dei bolscevichi. Questo per dire che, da un lato, quasi certamente Marx e la sua filosofia in quanto tali non possono essere ritenuti direttamente responsabili di quanto ha fatto il comunismo storicamente realizzato (e non a caso il comunismo teorizzato da Rosa Luxemburg o dai comunisti dei consigli, aspramente osteggiati dai bolscevichi, era ben diverso da quello poi realizzato in Russia o Cina), non è però ugualmente possibile nemmeno staccare recisamente questi due, e questo proprio perché è anche avendo accettato ed introiettato la filosofia di Marx che poi hanno agito i vari Lenin e Stalin.
La questione della Spagna, dal canto suo, è forse più complessa, anche se, pure in essa, la sostanza non mi sembra così diversa. In Spagna, dopo l’alzamiento dei generali golpisti si innescò un duplice processo: la guerra antifascista, ma anche il tentativo -soprattutto da parte degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari, forze di maggioranza relativa nella società spagnola- di attuare forme autogestionarie e socialiste, e certo, nella situazione europea e spagnola di allora, le due tendenze non potevano facilmente sposarsi. Certo, anche da parte degli anarchici e dei sindacalisti, non furono rari gli eccessi, le facilonerie, le “corse in avanti”, ma è altrettanto vero che, dall’altra parte ci furono o la pura e semplice difesa della precedente repubblica, la cui fine era stata di fatto sancita proprio dal golpe fascista, o il tentativo di contenere il tutto solo nell’ambito della “guerra antifascista”, nel tentativo di ingraziarsi Francia e Gran Bretagna che, dal canto loro, molto presto chiarirono ed attuarono un ferreo non-intervento (cosa che, invece, ben si guardarono dal fare Italia e Germania). Nell’ottica della sola “guerra antifascista”, comunque superata dai fatti, i comunisti di osservanza sovietica, cioè la gran parte di essi, attuarono un duplice tentativo: egemonizzare la, e se possibile impossessarsi della Repubblica spagnola e controllare che la guerra guerreggiata non andasse appunto oltre al solo contrasto delle armate fasciste, il tutto per attuare la politica allora scelta da Stalin, cioè i Fronti antifascisti. Difficile è dire quale delle due politiche -quella “rivoluzionaria” di anarchici e sindacalisti, quella “antifascista” dei comunisti e dei repubblicani spagnoli- fosse la più valida, visto che hanno perso entrambe, ma quel che va notato è che, nella Spagna dell’epoca, qualcuno, e fra questi, in primo piano, proprio Camillo Berneri, capì che le due cose -trasformazione sociale e lotta antifascista- non erano scindibili non tanto sul piano teorico, ma soprattutto sul piano pratico (non va infatti dimenticato che, almeno per i primi mesi di guerra, furono proprio le collettività libertarie agricole ed urbane e la Barcellona libertaria a garantire retrovie, rifornimenti, ricambi di truppe alla guerra) e quindi si adoperò per vedere, molto acutamente e pragmaticamente, come sarebbero potute procedere. Anche qui non sappiamo se Berneri avesse visto giusto, perché la sua impostazione, così come quella, assai simile, del Poum (che, va detto, era assai relativamente “trockijsta”), furono osteggiate e sconfitte innanzitutto proprio dai comunisti, i quali comunque, anche quando ebbero attuato gran parte del loro piano (egemonizzando sia il governo di Madrid che quello della Catalogna, eliminando le milizie) non conclusero granché, visto che persero la guerra. In tutto questo, quel che, a mio parere, va notato, e veniamo più strettamente alla “questione Togliatti”, è non solo che i detentori della “chiave dell’“irrisolto enigma della storia” andarono dritto per la loro strada senza stare ad ascoltare nessuno di quelli che erano sul campo (fra questi Pacciardi, allora comandante della Brigata Garibaldi, Carlo Rosselli, ma anche molti socialisti tedeschi, statunitensi, ecc) e che li invitavano ad atteggiamenti più duttili, ma soprattutto che il modo in cui condussero la loro lotta fu, ad essere benevoli, assai spesso discutibilissimo e non raramente criminale. E’ in questo contesto che si situa l’uccisione di Berneri e riguardo ad essa mi pare poco importante sapere se Togliatti fosse o no personalmente in Spagna. Sappiamo infatti, da molteplici testimonianze e documenti non solo di parte anarchica o poumista, ma anche repubblicana, socialista, giellista, che dietro alla politica dei comunisti c’era lui, in quanto longa manus della dirigenza sovietica, e questo mi pare basti. Quanto poi al clima di caos della Barcellona del Maggio ‘37, va detto che tale clima divenne veramente tale solo quando, verso il Marzo ‘37, cominciarono le manovre comuniste per impossessarsi dei centri nevralgici della città -gestiti da anarchici, cenetisti e poumisti-, mentre prima la situazione era relativamente tranquilla (Barcellona era comunque assai vicina al fronte), come testimoniano non solo Orwell, ma anche Simone Weil e vari giornalisti inglesi.
Detto tutto questo, occorrerebbe dire qualcosa anche sul ‘68 e sul ‘77, periodi in cui le tensioni libertarie -certo non maggioritarie, anche se assai significative, ed altrettanto certamente non scevre da critiche, soprattutto per il perdurante rivoluzionarismo di fondo, per un diffuso ideologismo e per una certa tendenza al settarismo- vennero quasi sempre emarginate non solo dal Pci, ma pure dai vari “gruppi” di ispirazione comunista, la qual cosa ci rimanda a quanto si diceva all’inizio su fideismo e “chiavi storiche”…
Franco Melandri

Nel comunismo l’idea che l’avversario può essere eliminato violentemente ha sempre avuto piena legittimità. Non importa se l’avversario è interno o esterno. Se è interno, comunque, non ha scampo. Consiglio la lettura de Il piombo e l’argento, storia vera del partigiano Facio, comunista, fucilato dopo un processo irregolare in un tribunale di partigiani, tutti comunisti, e poi decorato con medaglia d’argento al valore militare, in quanto caduto per mano dei fascisti! L’eliminazione dei compagni che sbagliano non è mai un peso. A maggior ragione non lo è se i compagni non sbagliano, ma hanno semplicemente un’altra idea. Perché “un’altra idea” è la colpa peggiore. Questa è una delle essenze del comunismo, perché discende -vi risparmio i passaggi che conoscete meglio di me- dal concetto del fine che giustifica i mezzi. Quando il fine è la liberazione dell’umanità, cosa vuoi che sia un morto anche se innocente. Leggetevi quel che è successo in Ungheria con Rakosi al potere. E Rakosi aveva sempre un posto a fianco di Stalin in ogni cerimonia. Ora, si può pensare di espellere Stalin dal comunismo? Mi dispiace, non si può, anche se l’abbiamo pensato tutti. Anche perché nel 1956 a Budapest c’era Kruscev e non Stalin. Nel 1968 a Praga c’era Breznev. La lotta interna al Pci è stata vissuta allo stesso modo, naturalmente nessuno poteva essere eliminato fisicamente, ma leggetevi i toni di Togliatti nei confronti di Silone, di Giolitti e di chi osò dissentire dai carri armati a Budapest. Lo stesso accadrà per Praga. Cos’è che ha impedito l’eliminazione fisica dei dissidenti? L’ideologia comunista? No, solo lo stato borghese, cioè il fatto che il Pci non era al potere. Dunque si vorrebbero espellere Stalin, Lenin, Kruscev, Breznev, Togliatti, Secchia, Longo dal Comunismo? E che farne di Ulbricht e di Tito? E di Thorez e Marchais? E di Pol Pot?
Possibile che il comunismo sia quel movimento che per renderlo presentabile bisognerebbe espellerne tutti i dirigenti ovunque siano stati al potere o abbiano avuto ruoli importanti?
Massimo Tesei

Comincio con l’identità positiva, con la ricerca di personaggi positivi con cui identificarsi.
Se è fatta come la rivista fa già, ovviamente è una ottima cosa. Ci mancherebbe altro. Chi penserebbe mai a pubblicare gli scritti dei funzionari del Comintern anziché Orwell; o Berneri. Fate benissimo a dare ad alcuni morti di grande valore, spesso isolati, l’attenzione che non hanno avuto in vita. Chi vi legge, vi legge anche per quello.
Bisogna ricordare però varie cose.
Le identità totali, da quelle nazionali a quelle religiose a quelle di partito, sono una vera disgrazia.
Possono essere una necessità in momenti di grande mobilitazione e di grande pericolo. E’ la logica dei movimenti e delle guerre; in particolare di quelle civili. Diventano una sventura dal momento in cui il primo nel gruppo si chiede: ma chi sono io? Cosa vogliono quelli lì da me? Perché parlano in mio nome?
Se si tratta di contribuire alla formazione di qualcuno, dei giovani, bisogna essere realisti e complicati. L’altra tradizione, quella libertaria e cooperativa, la sinistra liberale, è stata in Italia debole e precaria. Ha sempre dovuto navigare tra colossi totalitari -la chiesa cattolica, il fascismo, il comunismo- con compromessi e passaggi.
Gli anarchici, che qualcosa hanno voluto dire in Italia, oltre che in Russia, hanno avuto caratteristiche straordinarie, hanno scritto canzoni stupende -“O profughi d’Italia”, per esempio- ma hanno anche ammazzato molto, e qualche volta alla cieca e hanno scritto e cantato canzoni orribili. Una parte di loro è diventata fascista, cambiando quasi solo la forma, non il colore, delle bandiere. Non è solo che gli anarchici italiani e russi hanno ammazzato quasi tutti i capi di stato d’Europa e loro eredi, salvo la Regina Vittoria e il Kaiser. Uno può sempre dire che Bresci, emigrato in America, fece bene, quando lesse della strage di Bava Beccaris a Milano -“furon mille i caduti innocenti/sotto il fuoco di armati Caini”- fece bene a comprarsi un revolver, prendere la nave, tornare, chiedere dov’era il mandante e ammazzarlo.
Ma le idee che stanno dietro “Sul fosco fin del secolo morente” sono una tragedia e ci perseguitano ancora oggi, un secolo dopo. La canzone non dice solo ricambieremo sulle barricate piombo con piombo. Dice anche “e noi morremo in un fulgor di gloria/schiudendo all’avvenir novella via./Dal sangue nascerà la nuova istoria/dell’anarchia”. Questo è un bel guaio. Lo è stato anche a Barcellona, settanta anni fa. Anche se, come dice Orwell, in quella guerra civile lì quasi nessuno moriva in battaglia, perché erano troppo male armati. I morti, che furono il 10% della popolazione, erano quelli catturati.
Anche di questo la storia esiste. C’è un libro stupendo, di interviste, giusto per cambiare, che si chiama Blood of Spain, sangue di Spagna, che riporta, per infiniti episodi, oltre alle fonti scritte, le interviste dirette ai sopravvissuti, caso per caso. L’autore è un grande storico sociale e orale, di cui in questo momento non ricordo il nome. Nessuno ha tradotto, neanche Einaudi un quarto di secolo fa, perché sono mille pagine e a nessuno piace andare a cercare la verità.
Ma la letteratura originale e locale o di stranieri, è sterminata e riguarda un po’ tutti. Se si guardano le storie personali si trovano percorsi intrecciati e alleanze. Gli autori de “Il dio che ha fallito”, Silone, Koestler, Gide, ecc., che per la mia generazione, svegliata a 18 anni dai fatti di Ungheria, è un libro di formazione, sono ex-comunisti.
Quelli di Unità popolare -Codignola, Parri- avevano una sorta di patto di unità d’azione, anche perché gli altri erano peggio, mi ricorda Luca, che a 15 anni stava con loro.
Bianca Guidetti Serra, che quest’anno arriva ad 86, da ragazza stava nei sindacati fascisti. Poi fece la resistenza, studiò da avvocato, fu convinta da Camilla Ravera, segretaria dei tessili, a smettere di fare la sindacalista dei tessili nella Cgil e a fare suo mestiere, perché non bisogna tutti appiattirsi a fare le stessa cose e di bravi avvocati ce n’era bisogno. Uscì dal Pci nel ‘56, con gravi conflitti personali. Ha difeso gratis varie generazioni di militanti, fino a Lotta continua ed oltre. Fino a che ha potuto è stata Presidente del Centro Gobetti. Ma anche deputata di Dp, come Alberto Tridente, operaio cattolico, poi importante dirigente sindacale Cisl, certo anticomunista, quando esserlo aveva senso. Alla prima riunione dei Ds a cui è andato, nella vecchia Camera del lavoro di Torino, ha detto testualmente: “Sono stato sempre con voi nelle lotte; sono stato sempre contro di voi politicamente. Prima di unirmi a voi lasciatemi dire che voi avevate torto e io avevo ragione”. Così si fa. Ho sentito la frase di persona, anche se non posso giurare sulle singole parole.
L’ho rincontrato qualche anno fa, con tutta la sinistra Cisl, al Movimento di azione Giustizia e libertà, promosso a Torino da Guido Fubini, a cui mi sono anche iscritto, come lui.
Poi, come già con il Partito di Azione, la destra ci ha ucciso. Grande Stevens, uno degli aderenti al gruppo torinese, Eco e molti milanesi importanti, hanno pensato bene di costituire il Movimento di Azione Libertà e giustizia, giusto per cambiare, che a sua volta è stato spaccato dal rifiuto di Grande Stevens di assumere una posizione critica nei confronti della Fiat, di cui era il massimo fiduciario e che ha riconsegnato agli Agnelli con una operazione di cui non ha informato se stesso, in un diverso ruolo, perché i ruoli erano separati. Dovrà convincere i giudici di aver fatto bene. Ma al momento, oltre ai ruoli dirigenti nelle finanziarie degli Agnelli, oltre ad essere forse l’italiano più importante tra i grandi mediatori che giudicano le controversie tra le grandi multinazionali, è presidente della Compagnia di San Paolo, Fondazione del San Paolo-Imi, che è capitalizzata per 9 miliardi di euro, 18 mila miliardi delle vecchie lire. Così va il mondo. S’intende: la Compagnia è il massimo finanziatore di attività sociali e culturali in città, è un’ottima cosa, ma la sovrapposizione dei ruoli crea forse qualche problema.
Penso che si faccia benissimo a criticare la dirigenza comunista, che ha impiegato trent’anni per spiegarci ciò che aveva capito alla fine degli anni ‘50 -Occhetto aveva 23 anni quando si rese conto che il paese guida era un disastro.
Ma il problema non è il Comunismo storico, che è morto. Il problema sono i dirigenti rimasti e le idee.
Quando le generazione successiva alla mia ha avuto la possibilità di inventare qualcosa di nuovo, non ha inventato molto. O almeno ha mostrato la stessa tendenza delle generazioni precedenti, in condizioni assai meno tragiche.
Intanto si è identificata contrapponendosi a un nemico. Persino l’antifascismo può essere una sventura, come l’anticomunismo, se trasforma una lotta sociale in guerra per bande.
La sin troppo famosa affermazione “i proletari riconoscono in questo atto il loro senso di giustizia”, che non è una rivendicazione, come alcuni hanno sostenuto, ma una legittimazione, è anche l’appropriazione privata di una classe sociale, o del suo pensiero. In quei mesi lì il giornale diceva sempre “i proletari” per indicare se stesso e questo è molto totalitario. Forse non sono solo i comunisti del Pci che non hanno fatto grandi danni solo perché hanno perso.
C’è un altro problema. Non siamo in una tranquilla situazione un po’ stagnante. L’appropriazione privata dello stato è avvenuta in Italia in forme solo leggermente meno criminali della Russia.
Franco Venturi, quello de “Il populismo russo”, chiamava la monarchia russa occupativa, cioè non fondata su una legittimità ma sulla pura e semplice occupazione del potere. Lo zar comanda perché comanda. Credo che solo due zar siano saliti al trono per successione legittima -uno dei due perché gli anarchici avevano ammazzato il predecessore, ma questo non c’entra.
In Italia la struttura dello stato è stata erosa da una serie di unioni personali, di convergenze di interessi. Nel ‘38 Carl Schmitt venne a un convegno a Milano sugli stati totalitari, la cui ipotesi era che in Italia lo stato controllasse il partito unico, in Russia il partito controllasse lo stato, in Germania stato e partito fossero ciascuno sovrano nel proprio ambito. Lui sostenne invece che i giovani giuristi in Germania non credevano alle idee generali e che lì avevano totalmente rovesciato lo stato senza dirlo, attraverso una serie di unioni personali: il segretario del partito era anche sindaco, dirigente sindacale, dirigente d’azienda, ecc.
L’Italia si regge sulle unioni personali, che ipocritamente chiamiamo “conflitti di interesse”, facendo finta che ci sia un interesse del presidente del consiglio, attento al bene dello stato, o della nazione, e l’interesse di Silvio Berlusconi, monopolista della pubblicità, perché è da lì che nasce il resto, ed editore, proprietario di reti televisive, di aziende ombra all’estero, di cointeressenze con la mafia, di un partito politico, ecc.
Ma non è solo lui. Persone assai diverse, e meno potenti di lui, sono importante dirigente Fiat, amministratore delegato della Ferrari, presidente di Confindustria, forse futuro politico. Così ci sono i controllori controllati, i funzionari di partito dirigenti delle ex-municipalizzate, e più ce ne sono di ex-municipalizzate e più funzionari si sistemano e meno l’acqua arriva e più costa. Non moltiplico gli esempi perché ognuno ne conosce migliaia.
Un accordo tragico o cialtrone tra garantisti veri e finti ha distrutto ciò che restava della giustizia italiana facendo una legge sul giusto processo che si potrebbe chiamare del processo impossibile, con l’aiuto del peggior ministro della giustizia della storia della Repubblica e del Regno.
Perciò sono antiberlusconiano e contro lo stato di cose presente, che mi sembra pericoloso.
Ma purtroppo essere antiberlusconiani non basta. Le società hanno una loro collosa persistenza e non cambiano facilmente, neanche con le rivoluzioni e le implosioni, come la Russia insegna.
Per non fare sempre l’esempio svedese, l’Olanda è una società idraulica e perciò, da che esiste, molto regolata. La terra è un prodotto, un prodotto pubblico perché solo lo stato ha i soldi sufficienti a bloccare lo Zuiderzee e fare i polder. Perciò le case sono pubbliche e programmate. Ad Amsterdam è pubblico l’85% delle case e per averle ci si mette in coda. Se si vuole la casa ci si mette in coda -code di cinque anni- e alla fine si ha la casa.
Se cambia la maggioranza non cambia il sistema. Il comune di Amsterdam stipendia -non retribuisce ad ore, stipendia- le volontarie delle ong che si occupano di diritti civili, le equivalenti delle ragazzine che fanno gli interventi a favore degli stranieri nel gruppo in cui sono io, e che guadagnano circa un decimo, senza nessuna prospettiva. Se il Comune di Amsterdam non vuole discriminare gli stranieri fa un regolamento e non li discrimina. Le case sono sue. Questo non impedisce conflitti ed omicidi, come sappiamo. Ma nessuno dice che Amsterdam è comunista o che l’urbanistica, il traffico, le biciclette, in Olanda siano peggio che altrove. Una società può cambiare, anche senza rivoluzioni. La Gran Bretagna era la società più egualitaria e meno violenta d’Europa. Trenta anni di mal governo, di destra prima, di sinistra poi, hanno portato il tasso di morti per overdose a dieci volte in percentuale l’Olanda e la Germania -lo dice l’Economist- raddoppiato i carcerati e gli omicidi, fatto di Glasgow la città più violenta d’Europa. Sempre poco rispetto alla Colombia, al Sudafrica, agli Stati Uniti, che ha sette volte almeno la percentuale di carcerati dell’Italia.
Perciò c’è bisogno di capire i contesti passati, ricostruire un contesto per il futuro. Ognuno per quel poco che può. Ma è importante che ognuno sappia dove sta e sia in grado di distinguere i soggetti.
Tutti coloro che dispongono della forza hanno interessi. Nessuno si muove per la giustizia. In circostanze molto vicine a quelle del Medio oriente di oggi, nell’Europa degli anni trenta, tra dittature e guerre, quelli che pensavano che valesse la pena di rischiare la vita per difendere la Repubblica, si alzarono e ci andarono. Se uno pensa che c’è un male da attenuare si alza e ci va, se è in grado di essere utile. Se no cerca di contrastare la deformazione del mondo che è nel linguaggio dominante. E’ l’unica cosa che mi riesce di fare. Voi lo fate e lo fate certo meglio di me.
Francesco Ciafaloni

Parte di ciò che scrive Francesco Ciafaloni mi spinge, per non dire mi obbliga, a dire qualcosa. Tutta la mia esperienza di militanza è stata nel movimento anarchico, poi la militanza è a poco a poco finita e mi sono attaccata agli ideali… ma la militanza è finita proprio perché sempre più raramente perseguire gli ideali si coniugava con la realtà, trovava uno sbocco realistico e “giusto” o almeno giusto per me.
Vedere scritte le parole de “Sul fosco fin del secolo morente” -parole che beninteso so a memoria e potrei declamare tutte d’un fiato- fa impressione e ancor più impressione se cantate dalla mia generazione che non ha patito il fosco fin del secolo morente e tutto ciò che questo ha significato per chi quelle parole ha scritto. Nella realtà, e senza voler negare gli attentati avvenuti (tra l’altro quasi tutti, eccezion fatta proprio per Bresci, criticati anche allora) i fatti, nonostante la situazione dell’epoca, sono comunque stati inferiori al tremendismo delle parole. Leggerle ora, tra l’altro, mi ha fatto pensare ai “martiri” kamikaze di oggi…
Cantarle per noi significava “appartenere” e ben poca cosa significava il testo, si rivendicava una tradizione, una storia, una purezza di ideali che faceva sì che combattere per essi potesse voler dire morirne (non certo per noi, ma storicamente -cosa quest’ultima assolutamente vera).
In realtà i testi sono importanti e non aver contestualizzato la nostra tradizione (anarchica intendo) ha significato perdere il contatto con la realtà e anziché rivendicare il diritto ad avere voce ci si è rinchiusi ad ascoltare solo la propria voce.
Tutti dobbiamo farci esami di coscienza, sia chi in nome del comunismo è stato cieco di fronte a ciò che succedeva, sia chi per rivendicare il proprio anticomunismo si è chiuso in una torre d’avorio con l’assoluta incapacità di confrontarsi con la realtà. Questa è stata la causa della fine della militanza per molti di noi (anarchici) e, non so se molti o pochi di noi ne hanno ritrovato la strada proprio quando sono riusciti a voler sentire altre voci, voler ascoltare e domandare.
Rosanna Ambrogetti